di Rita Rebolini

Più giù c’è il paesino di Pietranatale. Il suo nome è molto eloquente: una pietra di dimensioni enormi, sola soletta, se ne sta lì in mezzo ai prati. Non si sa bene da dove venisse, né da che parte fosse rotolata. Le case si sono aggrappate attorno a lei, in un girotondo, quasi volessero proteggerla. Veramente è lei che con la sua stazza, la sua compattezza e la sua solida posizione, raccoglie a sé tutte quante le abitazioni piccole e basse rispetto al suo trono. A causa dello spopolamento della montagna, il paese rimase con pochissimi abitanti: migrazioni di massa di persone in cerca altrove di lavori più redditizi. La pietra divenne malinconica perché non sentiva più il vociare dei bambini, né lo stridolio dei carri che trasportavano legname, fieno e frutta.

Un giorno, con la coda dell’occhio, vide passare sulla strada grande alcuni camion carichi di tronchi. Appena più in là erano sorti dei capannoni dai quali provenivano rumori diversi, nuovi. Dentro ai capannoni frinivano motoseghe elettriche, punzoni per spaccare la legna, pulegge per trasportare automaticamente i vari manufatti.
L’enorme pietra sospirò. Ci mise quattr’occhi per osservare quel viavai di TIR che giungevano persino dalla Jugoslavia, talmente lunghi da dover fare varie manovre per guadare quelle curve di strada a gomito, carichi di lunghi e grossi tronchi d’alberi. Talmente immensi che era inverosimile immaginarseli in piedi nei loro boschi.
Ora la mastodontica pietra strizza l’occhiolino, si striglia i baffi, si dà un buffetto sulla guancia e sorride. “Scarpe grosse e cervello fine”. La malinconia è sparita: l’industria ha sopperito all’agricoltura.

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