(raccolta molto sparsa di pensieri)

fabiotordi

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I Ragazzi Del Lesima – 5

Il giovane venditore rimase qualche minuto pensieroso.
“Una maestra… addirittura… una maestra… Quando andavo a scuola a Corbesassi avevo un maestro che arrivava da Varzi, o da un paese vicino. Mi sembrava altissimo, intelligentissimo, vecchissimo e soprattutto molto austero e severo. Io, per fortuna, me la cavavo molto bene in aritmetica e quindi riuscivo a scusare qualche carenza nelle altre materie. Non avevo mai conosciuto prima d’ora una maestra, soprattutto una della mia età. Caspita: una maestra, una vera maestra!”.
Fu destato da una mano che si era posata sulla sua spalla: era lei!
“Allora, ci facciamo un ultimo giro? Però devi promettermi che stai più attento e cercherai di non pestarmi troppo i piedi”.
E ballarono, ballarono, ballarono fino al tramonto. Il ragazzo si rese conto che doveva imboccare la via del ritorno, aveva parecchia strada da fare per tornare a casa.
“Il mese prossimo c’è la festa a Vezimo, vieni?” disse la maestrina di Zerba.
“Credo proprio di sì, allora ci vediamo là, così puoi darmi altre lezioni di ballo.”
“Volentieri, mi sei molto simpatico, e pensare che mia mamma mi aveva parlato male di te.”
“Ah si? Posso conoscere il motivo di questa antipatia?”
“Beh, diceva di starti alla larga perché sei un commerciante, e quindi un buono a nulla, uno che non è capace neanche di andar nei campi o curare gli animali, e poi che sei uno sbruffone, un fanfarone. Sai, i miei genitori hanno fatto dei sacrifici per permettermi di studiare e vorrebbero per me qualcuno che abbia un lavoro solido e un avvenire garantito, non un mercante.”
“Aspetta un attimo, non ti sembra di correre un po’ troppo? Abbiamo solo ballato insieme.”
“Hai ragione, scusa” disse lei diventando tutta rossa, e aggiunse: “Allora ci vediamo, ciao”. E corse via, verso casa.

Durante il viaggio di ritorno il ragazzo non fece che pensare a quegli occhi, a quelle parole, i balli di quel pomeriggio, a quella figura minuta, i suoi capelli, le sue mani. Pareva che i propri piedi camminassero da soli lungo il sentiero del Lesima, non sentiva né il freddo né la fatica. Non era preoccupato, ma neanche soddisfatto, di come erano andate le vendite. Non gli importava più, pensava solo a lei, la maestra, la ragazza di Zerba, e quando fu arrivato vicino a casa i suoi pensieri si erano riassunti in una sola, forse avventata, ma solida, convinzione: “Io, un giorno, la sposerò!

Qui finisce, per noi, questa storia, che è un po’ vera e un po’ narrata sulle ali della fantasia. Non so veramente come siano andate le cose, non so come realmente si siano incontrati, come si siano conosciuti, ma mi piace immaginare che sia andata proprio così, come vi ho raccontato. Quello che so per certo è che la favola del commerciante e della maestra è una bella storia, che è durata tutta la vita. Ancora oggi, che hanno passato gli ottant’anni, quando guardano il monte Lesima, ai cui fianchi sono cresciuti e vissuti, pregano verso la croce che svetta sulla sua cima, e ringraziano il Signore per tutto ciò che gli ha regalato. Come faccio a sapere tutte queste cose? Perché il ragazzo di Ponti e la ragazza di Zerba li conosco molto bene: li vedo tutti i giorni da quando sono nato!

I Ragazzi Del Lesima – 4

A metà pomeriggio le vendite erano andate abbastanza bene: qualche metro di stoffa, cinque o sei pezze, era riuscito a vendere anche le uova ricevute in pagamento alla mattina. Aveva mangiato tardi: un po’ di polenta, un pezzo di pane e il formaggio che si era portato da casa, seduto sulle grosse radici di una pianta che sbucavano dal terreno. Anche in seguito si sedette lì, per riposarsi un po’ e guardare la gente ballare. Lui non era un granché come ballerino, si reputava goffo e impacciato, preferiva darsi al canto, soprattutto se agevolato da un buon vino rosso: «Mariolin, bella Mariolin, Mariolin, bella Mariolin, ma dove hai messo quel bambino che avevi?». Che bella che gli sembrava la vita: una canzone, un bicchiere di vino, una bella festa e un numero sufficiente di vendite. Quando sarebbe tornato a Ponti suo papà sarebbe stato sicuramente contento. A proposito del ritorno: un bel sole riscaldava la giornata e lui sperava che riuscisse a sciogliere la neve che ancora resisteva su quel tratto di sentiero per tornare a casa.

A destarlo dai suoi pensieri ci pensò un giovanotto di Zerba, che conosceva bene:
“Non balli? Che fai lì da solo? Non dirmi che non sei capace”, esordì.
“No, mi sto solo riposando, adesso ballo” rispose lui, che non voleva ammettere la sua inesperienza.
Si drizzò in piedi, e, con fare sapiente, scrutò il ballo per vedere se tra gli astanti c’era qualche dama libera da poter accompagnare. Pose gli occhi su una fanciulla: minuta, cappelli castani lunghi e un po’ mossi, un viso dolce, vestita tutta a puntino per la festa. Sembrava fosse lì apposta per farsi invitare.
“Ciao, ti va di ballare?” le disse.
“Volentieri”.
E ballarono. Il ragazzo non era, per l’appunto, molto abile, e finì per andare spesso fuori tempo e addirittura per pestare i piedi alla sua damigella, ma non se ne fece un cruccio, era rapito dagli occhi di quella ragazza e avrebbe voluto stare con lei tutto il pomeriggio ed anche la sera. Lei, a sua volta, pareva quasi non accorgersi di qualche movimento sgraziato del suo cavaliere.

Dopo qualche danza si divisero, c’era una vecchina interessata alle sue stoffe: gli affari chiamavano e lui, prontamente, rispondeva. La signora aveva preteso un forte sconto per via dell’ora tarda, sostenendo che altrimenti lui sarebbe dovuto tornare a casa con la stoffa invenduta, invece lei gli avrebbe fatto quasi un piacere a comprargliela, ad un prezzo ridotto, s’intende. Mentre dava retta alla cliente, il giovane mercante non riusciva a smettere di guardare sottecchi la giovane donna con cui aveva ballato. Si accorse che anche lei lo guardava, seppur pudicamente per non dare troppo nell’occhio. Passò di lì ancora quel suo amico che lo apostrofò:
“Guarda che ti ho visto come stai osservando quella li, fai attenzione, non farti idee strane”, ma lui prontamente rispose a tono:
“Che stai dicendo, ti riferisci a me? Io? L’ho solo fatta ballare perché era l’unica da sola in quel momento.”
 “Amico, a me non la dai a bere, la stai mangiando con gli occhi. E anche lei non smette di ronzarti attorno. Dammi ascolto, lascia stare, è la sorella di un mio amico, la conosco bene, ed è una buona a nulla.”
“Come, una buona a nulla?”
“Ma sì… figurati, dicono che non è neanche capace di andare al pascolo con le bestie. I suoi l’hanno fatta studiare, è diventata da poco maestra, si è diplomata a Bobbio.”
“Caspita, una maestra? Beh, io a scuola ero un campione con le tabelline…”
“Te lo ripeto, lascia stare. Non pensare che sia una di quelle maestrine di città, questa qui è una che ha studiato perché, secondo me, non ha voglia di lavorare. Pensaci: cosa se ne farebbe un uomo di una moglie che non sa neanche curare due galline e pensa solo ai libri? A parer mio non è capace neanche di sistemare casa”.
E, con quest’ultimo giudizio, l’amico se ne andò a fare un ulteriore ballo.

I Ragazzi Del Lesima – 3

Quando fu molto in alto, sopra Prodongo, c’era un tratto del sentiero che era tutto all’ombra ed era ancora pieno di neve. Ad un certo punto il mulo, testardo come vuole la tradizione popolare, si arrestò nel suo incedere e non volle in alcun modo proseguire. Il ragazzo ci si mise d’impegno, prima con le parole, poi con le minacce urlate, poi ancora con le carezze e infine spingendolo malamente. Lo spronava e lo spintonava, mentre la neve gli entrava nelle scarpe. Anche se era giorno di festa non aveva potuto mettersi le scarpe nuove che suo padre gli aveva comprato recentemente perché, sapendo che tipo di strada avrebbe dovuto percorrere, gli avevano proibito di indossarle, calzando viceversa quelle vecchie. Queste erano ormai rotte e sfilacciate, oltre al fatto che gli andavano strette, procurandogli notevoli spelature quando le indossava per lunghi viaggi. Suo padre gliele aveva comprate al mercato di Varzi, usando come sempre il metodo del “bacchetto”: una piccola asta di legno che aveva pressappoco la lunghezza del piede. Potete ben immaginare che con quella pratica approssimativa le calzature acquistate erano quasi sempre di misura sbagliata. Nel caso fossero state troppo grandi bastava legarle un po’ più strette, ma quando erano troppo piccole erano causa sicura di sofferenze.

Dai e dai, spingi e spingi, alla fine il mulo si decise a ripartire.
“Che faticaccia, ed io ho solo un mulo: chissà come aveva fatto Annibale a passare da queste parti con un esercito di elefanti” pensò il ragazzo, riferendosi al grande condottiero cartaginese. Egli transitò proprio da quelle parti, prima di combattere la battaglia della Trebbia, e si dice che il nome del monte Lesima derivi proprio dal latino “Lesa manus”, per indicare una ferita alla mano subita dallo stratega africano. Il giovane di Ponti non aveva mai visto un elefante, neppure disegnato, ma gli era stato detto che si trattava di animali mastodontici.
“Sarebbe bello averne uno” pensò scherzosamente “oppure possedere un’automobile, come i signori di città, e girare in lungo e in largo, adesso che ci sono le strade!”

Il sole era già alto e il nostro commerciante voleva essere a Zerba molto prima dell’ora di pranzo, in modo da avere a disposizione l’intera giornata per piazzare la sua mercanzia.
“Speriamo di vendere, in modo da non sentirmi anche stavolta i rimproveri quando torno a casa, e che perlomeno ci sia da divertirsi”.
I suoi genitori, come spesso accadeva in quegli anni, erano molto severi, e suo padre non transigeva dal lavorare sodo e pensare il meno possibile ai divertimenti, ma lui aveva quasi vent’anni: pur dando il giusto peso al suo lavoro – che in ogni modo gli piaceva più di ogni altra cosa – era pur sempre un ragazzo e come tale aveva piacere nella compagnia e nel divertimento. L’estate precedente aveva escogitato un piccolo trucco: in un paio di occasioni era partito il sabato, con la scusa di vendere anche la sera prima della festa, quando sulla piazza dei paesi si cantava, si ballava, e si ascoltavano le storie dei vecchi che, anche se erano sempre le stesse, erano comunque interessanti, perché ogni volta uscivano dei particolari inediti.  Si era recato a Barostro e a Bralello col suo fagotto e il suo fido quadrupede infecondo, per poi darsi invece al buon vino e ai canti in compagnia.

Finalmente, disceso dall’altro versante del Lesima, arrivò in vista di Zerba. Il paese era grande, se si teneva conto dei tre gruppi di case da cui era composto: Soprana, Lisamara e Stana; ma cionondimeno non era certo un paese ricco. Al ragazzo piacevano più i paesi della valle Staffora e della val Trebbia: erano più facilmente raggiungibili e c’era più movimento, il commercio “girava” meglio. I paesini della val Boreca, come quello che era la sua meta, non avevano molto passaggio, e gli abitanti erano perlopiù gente modesta. In ogni caso lui non disdegnava certo di fare affari con chicchessia, specialmente in giornate di festa come queste. Arrivò alla chiesa che la messa era già incominciata da un bel pezzo, si sentiva riecheggiare il latino del sacerdote. Legò il mulo e si infilò dentro il portone, più per vedere se c’era tanta gente e come erano ben vestiti che per un sincero pio sentimento. Una volta terminata la funzione religiosa iniziò, come abitudine, a salutare un po’ tutti, presentando la sua merce, chiedendo i bisogni della gente. Ormai era esperto, e sapeva che su queste cose comandavano quasi sempre le donne, quindi era a loro che prestava maggiormente la sua attenzione. Continuando a proporre i suoi prodotti, seguì il flusso della folla che si dirigeva verso la piazza, dove di lì a poco sarebbero iniziati canti, balli e pappatorie. Per la carità, non immaginatevi pranzi luculliani e viziose libagioni: in confronto ad oggi erano situazioni modeste, ma permeate da uno spirito di appartenenza, di gioiosità e di allegria indescrivibili, che facevano per un giorno dimenticare quanto dura potesse essere la vita.

I Ragazzi Del Lesima – 2

La sua prima tappa, Corbesassi, non era affatto distante. Era un paese proprio sopra al suo, dove svettava il campanile più alto di tutta la vallata. Era come se Ponti fosse quasi una succursale di Corbesassi. Il ragazzo, molto spesso, quando gli si chiedeva da dove venisse rispondeva: “Sono di Corbesassi” e solo dopo specificava “di Ponti, per la precisione”. Le scuole erano a Corbesassi, così come le poche botteghe, il sarto e l’osteria. A dire la verità anche al suo paesello c’era l’osteria, proprio a casa del ragazzo. Niente di paragonabile ai locali di oggi: a quei tempi l’osteria era una casa privata, dove chi voleva entrava a passare qualche mezz’ora bevendo vino, raccontando storie e magari giocare alle carte. Il padre del ragazzo aveva sempre avuto l’animo del commerciante: pur vivendo in un paese molto povero si era continuamente inventato dei modi per guadagnare un poco di denaro, in un’economia dove, al contrario, la normalità era vivere solo di quello che dava la terra e il bestiame. “Ponti è l’ultimo paese che ha creato il Signore, finisce anche la strada”, dicevano quelli che schernivano il ragazzo e i suoi compaesani. E pensare che fino a pochi anni prima non c’era neppure, quella strada. L’avevano costruita proprio di recente, seguendo un tracciato che riducesse al minimo le perdite di terra coltivabile, infischiandosene quindi di ottenere un percorso agevole. Tutti gli uomini del paese, coordinati proprio da suo padre, che si vantava di esser stato “capofrazione”, avevano dato una mano per scavare, portar via la terra, sistemare. In poco tempo anche Ponti era finalmente collegata al resto dell’Italia: si poteva raggiungere Corbesassi e da lì proseguire, sempre con una strada di recentissima costruzione, il Passo del Brallo, la frazione del comune di Pregola che maggiormente stava beneficiando del progresso dato dalle nuove vie di comunicazione.

Il ragazzo camminava in salita e pensava a quanto fosse beffardo il destino che gli aveva dato un animale da soma, ma gli aveva negato la possibilità di cavalcarlo e farsi portare, visto che era già carico di merce.
“Che me ne faccio di un mulo se poi mi tocca andare a piedi?” diceva tra sé e sé, “hanno ragione quelli che mi prendono in giro? Ma un giorno dimostrerò che anche uno di Ponti, l’ultimo dei paesi, riuscirà a combinare qualcosa di grande! Non so ancora cosa, ma prima o poi…”
E così, immerso nei suoi pensieri, arrivò a destinazione.

Puntò deciso verso una casa al centro del paese. Quel giorno non avrebbe fatto il solito giro, aveva un po’ di premura e sarebbe andato subito al sodo. C’era una famiglia che aveva richiesto una stoffa per far realizzare un abito al figlio, che si sarebbe sposato a breve.
“Buondì, ecco il tessuto che mi avete chiesto” disse quando una donna piccolina, ma nerboruta, gli venne ad aprire l’uscio.
Era la madre del futuro sposo, che fece accomodare il giovane nella spartana stanza che fungeva da tinello ed esaminò con cura la tela, mentre dall’altra stanza sopraggiunsero due uomini: il marito della donna e il figlio, che avrebbe indossato l’abito. La signora non era molto convinta, o forse voleva solo trattare sul prezzo, e si disse intenzionata a lasciar perdere, ma l’abilità commerciale del ragazzo, coi suoi modi sempre gentili, ma doverosamente un po’ insistenti, la convinsero dell’acquisto. Lasciato all’angelo del focolare di casa il compito della trattativa, toccava ora a chi portava i pantaloni perfezionare l’acquisto. Sto parlando del marito, ovviamente, che era il padrone di casa. Dell’opinione del figlio, a quell’epoca, interessava a pochi e, in ogni caso, sarebbe stata ininfluente. L’uomo propose, com’era prassi abituale, di acquistare a credito, ma il venditore di Ponti gli fece notare che il suo conto stava diventando un po’ troppo consistente e avrebbe preferito un pagamento immediato, considerando anche che, la loro, era stata un’espressa richiesta. Il padre dello sposo tergiversò, iniziò a parlare di tutte le spese a cui stava andando incontro a causa di quel matrimonio, si lamentò del fatto che con l’avvento della Repubblica fosse aumentato tutto, e alla fine propose di pagare una parte del debito pregresso, mettendo in conto quello che aveva appena comperato. Il ragazzo accettò pensando: “piuttosto che niente, è meglio piuttosto”, come gli avevano insegnato gli anziani del suo paese. Velocemente passò in una casa vicina, dove abitava la signora Maria, detta da tutti Mariuccia, per chiedere se, come promesso, gli poteva saldare un vecchio conto, aperto dal marito morto qualche mese prima. La povera vedova disse che non aveva molto, che stava passando un brutto periodo e che attualmente gli poteva dare solo un cavagno di uova. Con la promessa che al più presto le avrebbe restituito il paniere, il giovane sistemò le uova sul mulo, nella speranza di non romperle durante il tragitto che ancora lo attendeva.
Senza perdersi in altre faccende, voltò il quadrupede in direzione di Zerba, un paese che stava al di là del monte Lesima, dove quel giorno ci sarebbe stata una piccola festa, e quindi l’occasione buona per cercar di vendere qualcosa. La giornata non era iniziata male, aveva già recuperato in parte dei vecchi crediti, circostanza che non sempre facilmente si presentava. Col sorriso sulle labbra si incamminò.

I Ragazzi Del Lesima – 1

Vi voglio raccontare una storia ambientata sui versanti del Lesima, il monte più alto dell’Appennino Pavese, punto di incontro tra i territori di ben quattro regioni: la Lombardia, l’Emilia Romagna, il Piemonte e poco lontano la Liguria. È il racconto di quello che successe in una domenica di primavera di tanto tempo fa, e inizia a Ponti, piccolo paese della valle dell’Avagnone.

Quel giorno faceva proprio freddo. Eravamo quasi ad aprile del millenovecentoquarantanove, ma era nevicato da poco: quell’anno la bella stagione non voleva proprio farsi vedere. Il cielo era terso, ma l’aria pungente e occorreva ancora vestirsi con abiti pesanti.
Il ragazzo si apprestava a caricare il mulo di tutte le sue cose: i due rotoli di stoffa a quadri, qualche metro di lino, gli scampoli di fustagno arrivati addirittura da Milano e, infine, delle pezze di lana. Non erano certo dei suoi effetti personali, ma la merce che avrebbe cercato di vendere quella giornata. Eh sì, il ragazzo era un venditore. Al giorno d’oggi si aggiungerebbe “porta a porta”, ma a quei tempi era la normalità: nei paesi dell’Appennino non esistevano botteghe, se non qualche raro rivenditore di generi alimentari.

Mentre il ragazzo finiva di sistemare la merce, dal retro della casa, dove c’era una piccola stalla, uscì il padre e gli fece mille raccomandazioni:
“Stai attento, se ti danno dei soldi nascondili nella maglia, vai dalla Mariuccia che ci deve pagare da tanto tempo, non perderti in chiacchiere inutili!” e così via.
Che noioso!”, pensò il ragazzo, ma non rispose nulla al genitore. Non aveva voglia di guastarsi il morale e poi non poteva certo replicare a tono al proprio padre, meglio stare zitto e far finta di nulla, oggi era una giornata speciale e voleva rimanere a cuore lieto.
“Papà, ho finito! Tra poco parto. Non vi preoccupate, il tempo è ottimo e sicuramente ci saranno delle vendite. A stasera!”.
Quel «vi», badate bene, non è dovuto al plurale, ma al fatto che a quei tempi era abituale dare del «voi» al proprio genitore. Al «tu» ci si è arrivati nella generazione successiva.

Il ragazzo rientrò in casa per prendere il cappello e trovò la madre in cucina che, sentendolo rientrare, gli portò un fagottino.
“Ti ho messo un po’ di pane e del formaggio” disse la donna.
“Mamma, non datevi pensiero, avrei mangiato per strada” rispose lui, ma la madre non volle sentir ragioni.
“Sei come tuo padre, ti perdi negli affari e non sai neanche più se è ora di pranzo. Fidati di me, a pancia piena si ragiona meglio. Hai messo il maglione pesante? Fa ancora freddo.”
“Si mamma, grazie. Arrivederci”.
Prese il fagotto e uscì prima ancora che lei potesse nuovamente replicare.

(segue domani…)


Una

Quel fantasma per amico

Decisi di non parlare con nessuno di quello che avevo visto, anche per non sembrare preda di allucinazioni estive.

La sera successiva, dopo l’orario di chiusura, preparai lo stesso appostamento, dopo aver lautamente cenato e dopo diversi caffè per combattere il sonno.

Verso le tre del mattino, quando ero convinto che non sarebbe accaduto nulla, ricominciarono i rumori provenienti dalla sala. Stavolta uscii subito allo scoperto brandendo il bastone. Il visitatore notturno era lo stesso della notte precedente. Quando mi vide arrivare lasciò cadere la bottiglia di vino che aveva tra le mani e si diresse urlando verso l’uscita sbarrata, che attraversò senza aprire. Rimasi talmente scosso che non potei muovermi, mi ci vollero diversi minuti per riacquistare il sangue freddo. Controllai bene la porta d’entrata che era chiusa a doppia mandata. Non vi erano più dubbi, quell’essere non era reale, vale a dire che non era fatto di materia, insomma non era umano. Mentre ero perso in questi pensieri udii rumori di passi, mi voltai di scatto e lo rividi: era lui, era lì, lui in persona, o in non-persona, e qualunque cosa fosse, era a non più di quattro o cinque metri da me.
«Perché non fuggi?».
Lo guardai impietrito. La sua voce era profonda.
«Ho troppa paura», risposi.
Una sonora e fragorosa risata riempì la sala del pub «Castello» in quella notte d’estate del 1999. L’essere altri non era che il fantasma di Giovanni Malaspina. Mi spiegò la sua storia e mi fece molte domande. Minuto dopo minuto la mia paura svanì e l’interrogatorio si trasformò in una chiacchierata, che durò fino all’alba. Mi raccontò di quando, nel 1570, entrò in conflitto con i marchesi di Pregola per divergenze familiari e assaltò il vecchio castello, gli diede fuoco e lo distrusse, uccidendo barbaramente alcuni degli occupanti. Purtroppo per lui nella fortezza vi era ospite un vecchio negromante del Nord Europa che gli scagliò una terribile maledizione: dopo la morte il suo fantasma sarebbe rimasto intrappolato tra le mura del castello fino alla fine del millennio. Dopo decenni di solitudine, non gli sembrava vero che il maniero fosse ancora abitato. Avrebbe voluto bere qualche sorso di alcol ma, essendo incorporeo, non poteva, perciò furente fracassava i calici a terra.
Nelle settimane che seguirono queste chiacchierate si svolsero con regolarità quasi giornaliera. Giovanni mi chiedeva del mondo attuale, io mi facevo raccontare le abitudini, le imprese, le guerre e la vita di corte di quei secoli lontani.
Quando in autunno chiusi il pub, decisi di andare a trovare il simpatico spiritello almeno una sera la settimana. Così per i mesi seguenti continuarono i nostri incontri davanti al caminetto a chiacchierare. Passarono i mesi ed arrivò l’inverno. Il 31 dicembre mi recai al castello, dove trovai Giovanni in quello che una volta era il salone principale. Ci salutammo calorosamente. Ero triste per la perdita di quella figura ormai familiare, ma ero felice per lui, che avrebbe finalmente trovato la pace. Attraversò per l’ennesima volta il muro che divide il salone della cucina e scomparve.

Circa un mese dopo ero nel bar per fare un po’ di pulizie quando, ad un tratto, mi ritrovai davanti quel personaggio buffamente abbigliato che ormai conoscevo bene.
«Giovanni! Ma… come…» esclamai.
«Ricordi la maledizione? Ebbene, il millennio finisce il 31 dicembre del duemila, quindi, amico mio, dovrai sopportarmi un altr’anno ancora».

Questo è quanto accadde a partire da quell’estate del 1999.

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Come ho già scritto e detto più volte, ma lo ripeto perché molti ancora me lo chiedono: è solo un racconto, non ho avuto le allucinazioni. E per di più Giovanni Malaspina non è mai esistito, il castello fu distrutto da Gian Maria malaspina e nel 1575.

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ps dell’utimo minuto: secondo un’altra fonte fu distrutto da tal Giovanni Malaspina nel 1571… quindi un fondo di verità in quello che ho scritto c’è !!!!

Racconto d'estate

Nel 1999 il quotidiano La Provincia Pavese istituì un piccolo concorso letterario dal titolo "Il racconto d’estate". Chiunque avesse voluto inviare un piccolo racconto che si svolgesse nella nostra provincia evrebbe visto il suo lavoro pubblicato sul giornale e avrebbe partecipato alla vittoria finale. Io, per curiosità, per la voglia di cimentarmi in qualcosa di nuovo e per fare un po’ di sana e onesta pubblicità ad un’iniziativa che stavo per intraprendere, mandai il seguente raccontino:

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Nell’estate del 1999 decisi di aprire una birreria a Pregola, frazione del comune di Brallo. A dir la verità una frazione dal passato glorioso, tant’è che fino a non molti decenni prima era il capoluogo comunale, sede da secoli di un marchesato. Il luogo che avevo intenzione di trasformare in un piccolo bar stagionale aveva anch’esso una brillante storia: era parte della casaforte (chiamata castello dagli abitanti del paese), residenza dei marchesi Malaspina, feudatari di Pregola dal 1164 e ivi residenti fino all’inizio del XX secolo. Inaugurai il pub «Castello Malaspina», situato nell’ala ristrutturata della struttura medievale, verso metà luglio. Nei giorni successivi iniziarono ad arrivare avventori da tutto l’Oltrepò pavese: gente del luogo e turisti attratti dalla frescura e dal fascino del maniero. Non avevo mai fatto quel lavoro prima di allora e l’inatteso successo mi aveva disorientato un po’. Non sapevo ancora che ben più emozionanti eventi mi avrebbero coinvolto. Tutto ebbe inizio quando alcuni abitanti del paese vennero a lamentarsi per il rumore proveniente dal bar che li aveva disturbati durante la notte. Io mi scusai sfoderando tutti i sorrisi di cui ero capace, ma in seguito mi venne in mente che il giorno precedente era lunedì e quindi il pub era chiuso.  Con un misto d’ansia e preoccupazione mi recai di corsa al castello, dove trovai molte bottiglie spostate, alcune rovesciate, e numerosi cocci di bicchieri in terra. Con un rapido sopralluogo notai che non c’erano altri danni, e nessun furto: un intruso beone dunque. Non risultavano assolutamente segni di scasso: da dove poteva essere entrato?

La settimana successiva, di martedì, mi si presentò sotto gli occhi la stessa scena: bottiglie e bicchieri sui tavolini e per terra, porte e finestre integre. Feci sostituire al più presto la serratura dell’ingresso, pensando che qualcuno fosse riuscito a procurarsi un doppione delle chiavi. Non riuscivo a spiegarmi comunque un particolare: perché gli ignoti visitatori non si limitavano a portare via le bottiglie o a berle in silenzio, bensì le frantumavano rischiando di farsi scoprire per il frastuono? Il lunedì seguente all’ora di cena ero nel castello, appostato nella toilette nell’attesa dei vandali della notte, armato di un grosso bastone. Rimasi tutta sera nello stanzino di pochi metri quadrati, fermo immobile,finestre chiuse, nessun rumore, il caldo che cominciava ad essere insopportabile, con grosse gocce di sudore che mi scendevano sulla fronte. Dopo qualche ora la situazione era peggiorata perché stupidamente non avevo cenato e i morsi della fame iniziavano a farsi sentire, accompagnati  dal mal di schiena dovuto alla scomoda posizione. Infine la sonnolenza ebbe il sopravvento e mi addormentai.
Fui  svegliato da rumori che provenivano dalla sala, mi affacciai e….cosa vidi: un uomo che stava versandosi del rum. Appoggiò il bicchiere su di un tavolino, lo riempì e bevve. Continuò per altre due o tre volte. Io ero preso dall’osservazione dei suoi abiti: di stranissima foggia, pareva un costume teatrale. Nel frattempo l’insolito ospite continuava a servirsi finché, in uno scatto d’ira, scagliò con forza il bicchiere per terra. Non potei più trattenermi e uscii allo scoperto ma, quando mi vide, corse verso il muro laterale e… lo oltrepassò vicino al camino!
Potete immaginarvi lo sgomento misto a paura che provai in quegli attimi. Dopo essenni un po’ tranquillizzato, diedi un’occhiata intorno: ancora una volta lo scenario era composto da cocci di vetro e bottiglie aperte.Un particolare mi sembrò subito molto strano: la bottiglia di rum era quasi piena, e io avevo visto’quel personaggio bere più di quattro bicchieri.
Preso da un autentico terrore aprii la porta — che era rimasta chiusa a chiave — e me ne andai.
Quella notte non dormii.
Avevo sognato ad occhi aperti per colpa del pasto saltato, del sonno e del caldo?

(continua domani)

1986

Nella primavera del 1986, due anni dopo quel millenovecentoottantaquattro nel quale Orwell ci prospettava l’avvento del Grande Fratello, c’era già stato un evento che aveva colpito la mia mente di ragazzino: a gennaio era esploso il Challenger. Quando ero piccolino era insieme abitudinaria e speciale l’eventualità di un lancio di un "missile" nello spazio. La luna era già stata conquistata da decenni e mi sembrava quasi preistoria, ma il lancio di navicelle spaziali era ancora un evvento carico di suggestioni a cui i media davano molta importanza. Il countdown era qualcosa di sensazionale. Quel giorno di gennaio qualcosa andò storto e lo Space Shuttle Challnger esplose. Mi pareva incredibile, non mi sembrava vero. Avevo 12 anni e certe cose non le comprendevo, andavano al di là della mia immaginazione. Il mondo era per me fatto di cose consequenziali e quindi non mi sembrava vero che potesse succede una cosa così spaventosamente straordinaria. La cosa che mi ha colpito di più, e a cui ho ripensato tante volte, era la presenza di una maestra tra l’equipaggio. Ne avevano parlato molto: un’insegnante nello spazio. Che, insieme ai suoi compagni di viaggio, è diventata di colpo polvere e fiamme.

Mi ricordo un’altra cosa del 1986: è passata la Cometa di Halley. Anche di questo ne parlarono molto. A me pareva una cosa incredibile: una cometa, come quella di cui parlano i Vangeli, quella del Natale!!!!
E poi ricordo che avevo letto su un qualche giornale che nel 1986 avrebbe visto la luce un’invenzione che mi pareva fantascientifica: il videotelefono. Ho dovuto aspettare molti anni per vederlo davvero, e mi è parso ‘na strunzata.

Ma fu appunto nella primavera del 1986 che successe qualcosa di ancora più straordinario: il disastro di Cernobyl. All’inizio la notizia passò tra le tante: in Russia (in realtà Cernobyl è in Ucraina e quindi era in Unione Sovietica) è scoppiata una centrale nucleare. L’immaginazione veniva colpita perlopiù per un motivo: in Italia avevamo qualche centrale nucleare e il terrore era quello di un qualche disastro che potesse provocare morte e disperazione. La paura più grande era quella che la Guerra Fredda si trasformasse in guerra reale, e uno degli obiettivi dei "cattivi" potesse essere proprio la distruzione di una di queste centrali. Mia mamma mi diceva sempre che se fosse successo qualcosa alla centrale di Caorso, noi saremmo stati relativamente vicini e quindi in grave pericolo. I film che giravano in quel periodo (ricordate "The Day After"?) non facevano che acuire quelle preoccupazioni.

Col passare dei giorni la notizia prese una piega ancora più inquetante: gli espertoni non avevano mai calcolato (o meglio, avevano sempre taciuto) un pericolo molto grave: che le radiazioni nucleari potessero essere trasportate dal vento. E quindi l’intera Europa era in pericolo. Non si mangiavano più frutta e verdura. Non si poteva giocare nei prati. Mettetevi nei miei panni, io abitavo in montagna!!!
Il brutto era che dovevi aver paura di qualcosa di ignoto: non si vedeva, non si sentiva. Il mondo che ci circondava sembrava uguale a prima, ma i telegiornali non smettevano di metterci in guardia. Da incubi…

Altre cose che mi ricordo di quel 1986 sono il mondiale di calcio messicano vinto da Maradona e la sua Argentina (io tifavo Germania Ovest) e la misteriosa morte di Sindona nel supercarcere di Voghera. Costui era uno strano figuro, un personaggio coinvolto in un malaffare torbido in cui erano (forse) coinvolti banchieri, mafiosi e vaticano. Roba da film. E divenne così tristemente famoso il "Caffè alla Vogherese". Un poco indigesto direi…

R e la tavoletta

Fabiano detto Genova… perchè abitava a Genova. Flavio detto Flavietto. Il Camionita. La Foresta degli Eroi coi tarlon con Luke Scavalcher. La festa della birra di Brallo. Le guerre di pigne. Le guerre tra i Mafaball, i Tranch e gli Stemacrips. Io e R. R e la tavoletta. Il campo da calcio alle Piane per Smegi. La carambola di sotto da Max. Vittorio di Pavia. La Casa (oggi detta l’università). Quando io e Diego siamo scomparsi. In Trebbia in bici con Christian con il gesso. Sulle balle di fieno a vedere le stelle cadenti. Roberto di Milano e Mauro. Amdavamo a cercare i tappi in tutti i bar di Brallo: Cavanna, Appennino, Normanno, Edelweiss. I tappi del Campari avevano la gommina. Io e R a rubare i giornali destinati al macero. Quando ci hanno regalato gli Zagor. Io e Andrea e le capanne nella pineta vicino a Mario. In bob nel prato dietro alla Lina. I Paninari. Accendevamo i fuochi in pineta. Quando si entrava di sgamo in palestra. Quel posto là.

Questi potrebbero essere tutti i titoli di altrettanti miei racconti di infanzia. In uno delgi ultimi post vi ho parlato del Kursaal, che rappresenta soprattutto le mie estati da quando sono "grande". Questi invece sono tutti racconti di quando ero ragazzino. Scegliamone uno a caso, non posso raccontarveli tutti: R e la tavoletta. Da piccolo avevo un grande amico: R. Viveva ad Abbiategrasso con sua mamma, suo fratello, il compagno di sua mamma e suo figlio. Questi ultimi due l’ho capito solo quando sono diventato un po’ grandicello chi erano, da piccolo ero convinto che fossero suo zio e suo cugino, anche perchè lui stesso li definiva così. Io e R eravamo grandi amici. Lui veniva su a Brallo in tutte le feste e poi d’estate era su da Giugno a Settembre. Aveva un anno in meno di me e quindi io, che ero quello "grande" e inoltre conoscevo i posti, ero quello che "comandava". Cavoli quante cose con R. Quando pioveva passavamo le giornate a casa sua a giocare a Scala 40, ma in tutti gli altri giorni… non ci fermava nessuno, giravamo dappertutto e ne combinavamo di ogni. Poi un anno, quando avevo circa 12 anni, la brutta notizia: la sua famiglia reputava l’affitto troppo caro e quindi dall’anno dopo sarebbero andati in vacanza a Cegni. Pochi chilometri da Brallo, ma per un dodicenne come se fosse un altro pianeta. Ma prima di partire, proprio quell’anno un ente, se non sbaglio la Provincia, aveva organizzato una specie di campus estivo per i ragazzini. Organizzavano giochi, gite e quant’altro. E così io e R siamo finiti in gita alla piscina di Varzi. Era la prima volta che andavo in piscina (e fino all’anno scorso anche unica). Sia io che lui avevamo paura dell’acqua alta. Ad un certo punto io ero fuori e lui mi chiama, tutto contento, per farmi vedere che aveva recuperato una tavoletta, non so dove, e si era avventurato dove non si toccava. Dopo qualche minuto arriva un bagnino, portando R tutto malconcio in braccio: stava affogando e l’aveva preso appena in tempo. Gli organizzatori ovviamente si sono cagati sotto.

Non ho visto R per tanti anni. Un giorno, quando avevo 18 anni (nel mitico 1992 !!) un’amica mi si avvicina al Kursaal e mi dice: ma tu conosci un certo R? Beh si una volta, tanto tempo fa. Guarda che è lui. Fammelo vedere. Ok vado a cercarlo.

Cazzo era lui, proprio lui, il mio amico. Proprio lui. Ci siamo frequantati quel’estate, ci siamo ritrovati. Un giorno c’erano dei ragazzi che suonavano dal vivo in piazza a Brallo, lui era lì a vederli e allora abbiamo fatto un giro a piedi per il paese, fino a dove abitava lui una volta. Anche l’anno successivo ci siamo rivisti, d’estate. Era un po’ conciato. Sempre messo male, ubriachissimo, sporco. Ricordo che metteva su una giacca degli operai Sip. Un giorno l’ho beccato mentre litigava coi buttafuori che non volevano farlo entrare al Kursaal. Era abbastanza fatto. Allora l’ho caricato in auto e l’ho portato a fare un giro fino a Pregola, o forse fino al Penice. Ho perso mezza serata, e quelle erano serate da non perdere per nulla al mondo. Ma lui era R, perdio. Il mio amico. Al ritorno ha voluto che lo lasciassi li, sarebbe andato a casa con qualcuno. Non l’ho mai più rivisto. L’anno dopo e quelli successivi chiedevo di lui a ragazzi che lo sconoscevano. Ma non era mai più venuto su in Valle Staffora. Un ragazzo una volta mi ha detto di averlo visto in compagni di aluni punkabbestia nelle metro di Milano. Chissà se è vero. Cazzo chissà dove sei finito R.

(la foto non c’entra nulla, è del 1959 e l’ho presa su questo sito: /www.sanmauropavia.it)

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