(raccolta molto sparsa di pensieri)

fabiotordi

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Rime di diamante :)

A grande richiesta ecco il video della poesia delle nozze di diamante :-)

Nozze di diamante !

Ed ecco qua una gran folla riunita
                  per festeggiare ancora Siro e Rita
Come sappiamo Siro ha un altro nome
                 Non è banale, ma inconsueto: eccome!
“Ciriaco Tordi”, fu da bambino battezzato
                                ma per tutti “Siro” è sempre stato
E Rita, non è certo una sorpresa,
                        sapete che si chiama Maria Teresa
Due nomi pomposi e aristocratici
                         ma loro son di certo più simpatici
E, guardate, non coi nomi ma cogli atti
                    tanti successi nella vita ne hanno fatti
Potrei dire di trionfi personali,
                      ma io parlo di un amore senza uguali.
Che è sbocciato sessant’anni orsono
                           Così tanti che non so neanche quanti sono
Un amore che ha portato tanti frutti
                          passato nei bei momenti e in quelli brutti
Il Signore tante cose gli ha concesso
                               3 figli e 3 nipoti: è un bel successo!
E poi, non lo dico per finta
                    se non c’è sempre la salute, ci mettono la grinta
I figli sono grandi e forse anche i nipoti
          Ma loro non si arrendono e mai hanno giorni vuoti
La Rita di gioielli non ne ha mai portati
A Siro è andata bene e non ne ha regalati
Ma tutea queste persone, e sono proprio tante
Son qui per festeggiare… le nozze di DIAMANTE !!!

La Multipla

Ecco mia mamma, nel 1960, alla guida di una Fiat Multipla, da poco acquistata. Certo che per la Fiat il nome Multipla ha sempre voluto dire "Macchina Orribile". Ho trovato questa foto qualche giorno fa in un cassetto, non avevo mai visto quest’auto, ma mio papà me ne ha sempre parlato con enfasi dicendo che ci si poteva caricare tantissima roba. Una sorta di monovolume ante litteram. E qullo che non ci stava dentro troava alloggiamento su portapacchi! Che mezzo…. !!

L’inverno a Pregola

L’anno, si sa, ha quattro stagioni. La primavera è per tutti, l’arrivo benefico del risveglio della natura. L’estate è accostata alle vacanze, al turista che gode dell’aria salubre, al ritorno al proprio paesello di quegli abitanti emigrati altrove. C’è trambusto: preparare feste, cuocere polente e salamini, imbandire tavolate di succulenti risotti, nonché dolci di varie specie. L’autunno è magnifico per i suoi colori, che a descriverli non basterebbe la tavolozza di un pittore. Gli orti offrono ogni ben di dio, dalle patate ai pomodori. L’autunno è propriamente accostato alla raccolta dei funghi, delle castagne, al tramestio dei cacciatori e dei trattori carichi di legna. Ed ecco poi l’inverno: lo si vuole freddo, triste, disadorno, lungo da passare. A Pregola non è così: coi suoi 1000 metri di altitudine l’inverno è una bellezza. Dapprima le piogge scroscianti, benefiche, che irrigano la terra; poi un bel manto di neve bianca, soffice, pulita, che copre tutto come una calda coperta; infine un silenzio assoluto che ti dà il modo di pensare, di ricordare, di progettare, di essere contento, di godere di quel mondo incantato che il paesaggio ti offre. Gli alberi spogli stanno lì fermi, sembrano sentinelle. I pini pendono i rami carichi e aspettano l’alito del vento per potersi scrollare di dosso la neve gelata. Il monte la fa da padrone: domina su tutta la vallata e ti difende dai venti. Lassù sulla punta sta la Madonna: il suo sguardo è per tutti, ma soprattutto volge a Pregola il suo gradimento. Gli uccelli che non hanno di che cibarsi, se non di una bacca di ginepro, volano a bassa quota cinguettando tutto il giorno: il loro pigolio anima la quiete della vallata. La neve e il freddo non sono più un grande guaio: con caldi doposci moon boot acquistati dalla Cinzia, con le scarpe da trekking da Fabio, la giacca a vento da Siro e il quad con quattro ruote motrici da Ivo ci si può permettere (come il dottor Villani) più di un bel giro sui prati innevati o su qualsiasi tipo di strada, sia essa impervia o ghiacciata. Che ne dite? È poi così brutto l’inverno a Pregola? Il rintocco delle campane è sì un po’ più fioco, ma non da meno squillante quando a Natale chiama a sé gli abitanti delle frazioni vicine per le messe religiose. E le case del paese? Abbarbicate attorno a quel pendio del monte, sembra si diano la mano, si tengano a braccetto, si sussurrino le paroline. Insomma un paesino da fiaba che trova il modo di sentirsi vivo anche in mezzo a quel gran silenzio. E la gente? Poca, in verità, ma buona. Cordiale, umile, socievole, generosa, sa badare ai fatti suoi e camminare con le sue tradizioni. La vita c’è: un camino fuma, una porta si apre e la vita è bella. È bello viverla quassù, dove si sente più che mai dover ringraziare Dio che ce l’ha data. E poi il Park Hotel? Raramente lo si trova su in montagna: le sue luci sfavillanti a tutte le ore richiamano gente da tutte le parti per un buon riposo e benessere. E che dire del nostro Gerry? Le sue sculture religiose su legno vivo testimoniano la sua bravura e l’impegno di tutti noi a non trascurare il loro significato: “Il mondo è bello, ma Dio ce l’ha solamente prestato”. Venite a Pregola d’inverno, un badile da offrirvi per spalare ve lo abbiamo preparato. Sapevate che fa la ruggine se inoperoso?

Rita


Foto by giames

 

Pietranatale

di Rita Rebolini

Più giù c’è il paesino di Pietranatale. Il suo nome è molto eloquente: una pietra di dimensioni enormi, sola soletta, se ne sta lì in mezzo ai prati. Non si sa bene da dove venisse, né da che parte fosse rotolata. Le case si sono aggrappate attorno a lei, in un girotondo, quasi volessero proteggerla. Veramente è lei che con la sua stazza, la sua compattezza e la sua solida posizione, raccoglie a sé tutte quante le abitazioni piccole e basse rispetto al suo trono. A causa dello spopolamento della montagna, il paese rimase con pochissimi abitanti: migrazioni di massa di persone in cerca altrove di lavori più redditizi. La pietra divenne malinconica perché non sentiva più il vociare dei bambini, né lo stridolio dei carri che trasportavano legname, fieno e frutta.

Un giorno, con la coda dell’occhio, vide passare sulla strada grande alcuni camion carichi di tronchi. Appena più in là erano sorti dei capannoni dai quali provenivano rumori diversi, nuovi. Dentro ai capannoni frinivano motoseghe elettriche, punzoni per spaccare la legna, pulegge per trasportare automaticamente i vari manufatti.
L’enorme pietra sospirò. Ci mise quattr’occhi per osservare quel viavai di TIR che giungevano persino dalla Jugoslavia, talmente lunghi da dover fare varie manovre per guadare quelle curve di strada a gomito, carichi di lunghi e grossi tronchi d’alberi. Talmente immensi che era inverosimile immaginarseli in piedi nei loro boschi.
Ora la mastodontica pietra strizza l’occhiolino, si striglia i baffi, si dà un buffetto sulla guancia e sorride. “Scarpe grosse e cervello fine”. La malinconia è sparita: l’industria ha sopperito all’agricoltura.

Brallo e i suoi dintorni

E la storia continua…
Brallo: i suoi dintorni di Rita Rebolini

Oggi inizierò a mostrarvi i paesini che stanno ad est di Brallo. Si sa, il giorno inizia ad est, dove spunta il sole. Prima sta l’alba, quella fioca luce che dirada le fitte tenebre della notte e man mano le allontana così bene da poter osservare la vallata sotto una bella schiarita. Dapprima spunta in cielo il chiarore del sole, tanto da far sbiadire quello delle stelle e mostrarci uno squarcio di “infinito” impenetrabile col nostro piccolo ragionevole cervello. Poi i raggi: pochi, chiari, prorompenti su quel cielo mattutino che non è né grigio né azzurro. Infine il bel faccione del sole, non ancora abbagliante, che si lascia guardare così tondo, così pacioccone. È un’emozione. Il cuore ti si allarga, prendi coscienza del tuo essere, del tuo mondo, dell’universo che ti circonda e ti fa chiedere se gli uomini sanno che il sole è vita per tutto il mondo, se si accorgono che il suo sorgere significa un giorno di vita da godere in qualsiasi forma, se sanno che è un dono riconducibile a Dio.
Ora nel cielo non è ancora tutto chiaro, ma quei minuscoli uccellini che stanno sulle piante già cinguettano, un mormorio solo, un inno, un canto al Creatore e non importa se non hanno di che beccare. Poi la luce si diffonde. Luccicano le collinette, i versanti dei monti, appaiono i paesini così belli, così assonnati, così caratteristici da fare seriamente invidia alle invivibili città.

Vi voglio parlare di Pieve. Si dice che si mangi bene e che bene vada anche nel portafoglio. Su un pianoro, in mezzo a prati e boschi, c’è una rovere secolare, grande, grossa, fronzuta. Ogni anno per la festa della Madonna della Guardia (29 agosto), nel periodo migliore delle vacanze e dei raccolti, ai pedi di questa ultracentenaria pianta si celebra la Santa Messa. Accorre gente da tutte le vallate circostanti. È un rituale al quale ciascuno tiene a presenziare. Mentre il celebrante, senza alcun microfono, con paramenti per il minimo indispensabile, prosegue nelle sue funzioni religiose davanti alla statua della Madonna, si possono scorgere bimbi seduti sull’erba, in silenzio assoluto. Nessuno si permette qualche capriccio, anzi si sta lì compiti per tutto il tempo della Santa Messa. Uomini e donne appoggiati ai tronchi degli alberi, statualmente rivolti alla grande pianta, trovano un momento di pausa per poter entrare con tutta l’anima a percepire l’emozione di trovarsi lì, anche in mezzo a gente sconosciuta, e a formare con la mente un magico pensiero di umiltà e fratellanza. Più in là, in bella mostra, la fila dei sindaci (anche in versione femminile), venuti come i Magi da oriente e da occidente. Con le loro sciarpe tricolori, in rappresentanza dei loro concittadini, pur senza parlare, stanno lì a porgere il loro omaggio alla Madonna. A fine cerimonia belli e brutti, piccoli e grandi, come si suol dire, tutti in fila partecipano alla lunga processione che riporta la statua celeste nella nicchia della propria chiesa. Ora la vecchia rovere resta lì, nuovamente sola. Scuote le fronde, chiama a sé tutti gli uccelli e dice loro: “cantate!

Il lupo c'è

di Rita Rebolini

Oggi il mondo è cambiato. È cambiato anche troppo in fretta. Non so dire se in meglio: economicamente sì certo.
Noi di una certa età abbiamo vissuto via via il mutamento (nell’arco di cinquant’anni) che fu così veloce da non lasciarci il tempo di pensare, di confrontare, di constatare. Eravamo usi ad attenersi scrupolosamente ai principi morali e religiosi tramandati dai nostri padri. Ci è parso dissacrante il concetto moderno dove trovi il termine “tutto è lecito”. Non è più tanto male se (sfacciatamente) si offende un vecchio, un vicino, chi ti sorpassa in automobile. Chi ha speso una parola in più nel fare un apprezzamento ad una ragazza. Si passa con velocità inaudita alle vie di fatto. Ci si affronta con ira ed invettive pesanti e talvolta spunta persino un coltello.

Non meglio assistiamo ogni giorno ai mugugni, ai vari battibecchi dei nostri politici, siano essi da una parte o dall’altra, che in questo modo non assolvono il loro compito di dare il buon esempio. Il video, poi, diciamola com’è, presenta parecchie volte scene scabrose, casi in cui le persone che hanno subito un torto non chiedono giustizia, ma vendetta. Inoltre esempi di vizi, di disagi, di gente che se ne frega di tutti e di tutto. La voce della Chiesa viene contestata, si vuole ad ogni costo metterla a tacere come si fa delle proprie coscienze. Si mira solamente ad esternare il lusso, il baccano, lo spot, gli abiti firmati. Il volgare vocabolario è diventato purtroppo moderno. E così via.

Ma il lupo c’è, come nella favola. A dodici, tredici anni, o su per giù, le ragazzine non pensano solo a studiare, non aspettano neppure di crescere, pensano di capire tutto del mondo, che certamente pare ai loro occhi meraviglioso, speciale, da godere, da prendere subito. Internet, il telefonino, completano il quadro: ci si può collegare con tutto e con tutti, chattare, avere dei segreti.
E qui sta il guaio!
Quando poi succedono casi estremi e talvolta senza più rimedi, noi di una certa età ci domandiamo se il progresso sia sempre positivo; in che cosa si è sbagliato; che cosa oggi si possa fare per porvi rimedio. Difficile è un’esauriente risposta. Un avvertimento: “il lupo c’è, anche se si presenta quasi sempre camuffato”.

Il paese che non c'era

Ormai non la fermo più: mia mamma è diventata una blogger! Ecco il suo nuovo articolo:

A nord inizia la Valle Staffora (col suo bacino delle acque) che scende con pendii rocciosi e scoscesi verso Varzi. A sud la vallata del torrente Avagnone, aperta e meno ripida, porta le sue acque nel Trebbia. Divide le due valli il Passo del Brallo. Forse il nome starebbe a significare il vento pungente che sempre spira da una vallata all’altra e che ad ogni passante farebbe pronunciare: “Brrr Brrr”.

Si narra che vi sia passato anche Annibale quando trasferì l’esercito da Cima Colletta al Monte Penice.

Già ai tempi dei sentieri del sale vi erano una bellissima fontana rigogliosa di acque cristalline e due casupole arroccate su un pendio: erano abitate dai Moscardini, i pionieri del luogo che più in basso annotava anche una “baracca” adibita ad osteria. A quei tempi, sui vari passi delle nostre montagne, esistevano ricoveri di quel genere che potevano prestare sostegno ai tanti passanti che a piedi, e magari carichi di merce,  andavano da una valle all’altra.
Poi venne la strada!
Dopo il 1930 la camionabile (ferma a “Costa  Mora”) fu prolungata fino a Ponte Organasco allacciandosi così alla statale 45 Piacenza – Genova.

Il Passo del Brallo cambiò volto: dai paesini vicini vennero nuovi abitanti. Da Bralello scesero gli Alpegiani e costruirono un grande albergo; i Normanno trasformarono quella catapecchia di osteria in un caseggiato con tanto di muri in pietra, di porte e di finestre. Poi fu la volta di altri trasferimenti dalle varie frazioni. La strada, non più sentiero, ma camionabile, fece appetito a molti. Da Valformosa vennero i Cavanna e i Frattini, da Barostro i Zanardi. Cominciarono le prime costruzioni. Nacquero alberghi, ristoranti, negozi e, in pineta, anche un dancing. Da Corbesassi vennero i Buscone e i Benedini. Aprirono i battenti le officine meccaniche e la falegnameria.
Da Ponti i Tordi costruirono case e negozi e reclutarono clienti da mezz’Italia. I Nobile aprirono negozi di generi alimentari. Da Colleri i Gualdana vennero ad impiantare il forno per il pane e focacce. Da Selva i Balconato allestirono la lavasecco e l’ufficio per le assicurazioni. Negli anni successivi queste immigrazioni continuarono ed il paese crebbe parecchio. Sul passo si installarono: il medico condotto, il farmacista, il veterinario, l’ostetrica, la maestra, il geometra, il calzolaio, la pettinatrice, il collocatore, il sarto, l’orologiaio, il barbiere, la bidella, e altri.
C’è stato un periodo, di alcuni anni, nei quali ha funzionato anche un distaccamento dei Carabinieri.

Brallo diventò capoluogo comunale. La logica porta a notare come in quel periodo si pensò di mettere in piedi l’edificio del municipio, quello delle scuole, la chiesa e venne realizzato un impianto di risalita per la pratica dello sci.

Il paese che non c’era, ora c’è.

Nel 1962 si tenne al Brallo un simposio per analizzare l’aria. Fu constatato che, essendovi molte pinete nei dintorni ed essendo il posto vicino al mare (in linea diretta circa 30 chilometri), il misto di aria  così analizzata risulta ottimale, specie per chi soffre di bronchiti.

Anni di progresso, anni di benessere, nugoli di gente che sale al Brallo, nonni e bambini che vengono a prendere l’aria buona.
I residenti costruiscono, affittano, c’è lavoro per le imprese edili, come quelle dei Ravetta,dei Pericotti e dei Normanno.
Si aprono negozi di pelletteria, di alimentari, di elettrodomestici, di cartoleria e di souvenir. Si rimodernano le strutture, si cambiano arredi, si creano pizzerie, gelaterie, sale giochi. Al Brallo ora c’è un commercio fiorente. Aprono i battenti anche la palestra e il cinema e mettono le radici persino due banche.

Passano gli anni. Inizia lo spopolamento della montagna, i giovani (anche laureati) cercano lavoro altrove, le famiglie si diradano, non ci sono più bambini. Le scuole delle frazioni, una dopo l’altra, chiudono. Persino a Corbesassi e a Colleri dove le insegnanti erano due. L’epopea comincia la discesa: ora non tutto funziona come da prospettiva. Chi ne risente per primo sono le discoteche e gli altri centri ludici. Oggi a peggiorare le cose è giunta anche la crisi generale. Ciò nonostante, i longevi abitanti del Brallo, come l’edera, sono abbarbicati alla loro montagna, cercano in tutti i modi di affrontare, alla meno peggio, la situazione. Hanno istallato un distributore di benzina (con self-service), hanno riordinato la piazza centrale, hanno sistemato il gioco delle bocce, hanno provveduto alla realizzazione di campi da calcio e da tennis. La Pro Loco si fa in quattro ad organizzare sagre e ricorrenze, nonché indire dibattiti culturali, balli e cene.

Insomma, cercano in tutti i modi di non far mancare quelle infrastrutture, anche nuove, affinché possa funzionare il centro tennis e il centro benessere.

Il paese che non c’era, ora c’è.
 

Visitatelo: fatelo a girotondo, vi accorgerete che è il paese più bello del mondo.

Rita

Don Mario Grandi

Ospito sul mio blog un articolo dedicato all’indimenticato don Mario Grandi scritto da Maria Teresa Rebolini, detta Rita, mia mamma.

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Nell’aria c’è odor di Natale: noi di una certa età ce lo raffiguriamo ancora col presepio, la tavola imbandita e un pensiero per quel piccolo Gesù, così povero, così sconosciuto, da far tenerezza.

Al Brallo c’è la chiesa nuova con vetrate e spazio per accogliere tante persone. Purtroppo, mancanza  di vocazioni, quest’anno la chiesa resta fredda, inerte, chiusa con sommo dispiacere di quelle donnette che per il Natale si inerpicavano sui pendii scoscesi e volti a mezzogiorno, per poter reperire il muschio e preparare un bel presepio in chiesa, orgoglio del paese.

Noi, gente di una certa età, andiamo volentieri a rivederci il passato: ai tempi del nostro compianto Don Mario. Lo incontravi a Pregola sulla via che porta al cimitero con breviario e il fido cagnolino. Si fermava volentieri a parlare con chi incontrava, aveva una parola buona per tutti e risolveva ogni problema dei suoi parrocchiani con l’aiuto che invocava da Dio. La sua fede traspirava da ogni suo gesto. A me che avevo espresso la mia preoccupazione ed anche un po’ di malumore per una faccenda di esproprio, disse: “Non disperi signora, le cose non vanno mai come vogliono gli uomini, bensì come vuole Dio”. Ve lo voglio proprio dire, ho constatato (dopo) che quella frase si era avverata.

La forza di Don Mario è stata la sua umiltà e la sua obbedienza ai superiori. Più volte fu chiamato a prestare la sua opera altrove, ma poi lui tornava ancora a Pregola e si presentava ai parrocchiani, quasi volesse scusarsi, loro che invece dimostravano il proprio entusiasmo per il suo ritorno.

Ed è tornato anche per l’ultima dimora, si è unito ai suoi cari genitori ed è li ancora una volta a disposizione di chi ha bisogno il suo aiuto.
Come dal bozzolo esce una bellissima farfalla e vola via, così l’anima di don Mario è volata in alto, tanto in alto per poter, ancora oggi, proteggere la sua gente. Si chiamava Grandi di cognome ed è stato grande di animo, di fede, di comprensione, di carità. Ancora oggi, noi di una certa età, gli vogliamo bene.

Rita

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