Poco fa un cliente mi ha regalato questo quadrifoglio. C’è ancora gentilezza a questo mondo, basta saperla trovare, basta saper dove ascoltare e cosa guardare.
E soprattutto è proprio come la fortuna: se la cerchi, la trovi. Se la sai costruire, la trovi. E per la gentilezza è la stessa cosa.
There is a house in New Orleans They call the Rising Sun And it’s been the ruin of many a poor boy Dear God, I know I was one
My mother was a tailor She sewed my new blue jeans And my father was a gamblin’ man Way down in New Orleans
And the only thing a gambler needs Is a suitcase and a trunk And the only time he’s satisfied Is when he’s a drunk
Oh, mother, tell your children Not to do what I have done To spend your lives in sin and misery In the house of the rising sun
I got one foot on the platform And another on the train And I’m going back to New Orleans To wear that ball and chain
There is a house in New Orleans They call the Rising Sun And it’s been the ruin of many a poor boy Dear God, I know I was one Dear God, I know I was the one
Ricordo una storia che mi raccontava sempre mia mamma Rita. Lei da piccola viveva in un paese povero, in una famiglia povera. Aveva cinque fratelli e in otto a tavola non ci si stava, ma solo i suoi genitori e i due fratelli più grandi. Lei e i tre più piccoli sedevano sulle scale con la zuppa di minestra in mano.
Non si vergognava a dire che erano così poveri che anche il cibo era un problema e magari il pezzetto di pollo usato per il brodo lo mangiava il papà, che faceva il muratore, mentre gli altri toccava solo il gusto e il profumo.
Mi raccontava che alla domenica lei usciva di casa prestissimo, a volte prima dell’alba, come tutti i giorni per andare a pascolare le bestie insieme alla sua fida capretta, è incrociava una signora, sua lontana parente, che ogni settimana le regalava una mela.
A lei quella mela sembrava (ed era!) un regalo bellissimo. La custodiva gelosamente e se la mangiava con avidità nei pascoli sotto al Lesima, non lasciando quasi neanche il torsolo. Mi diceva che per tutta la settimana attendeva la domenica per incontrare quella donna che le avrebbe dato la mela.
Quando ero più adulto e il nostro gatto di casa chiedeva cibo anche se aveva già mangiato lei gliene dava lo stesso ancora dicendo: “io ho patito la fame, e so cosa vuol dire, è una cosa brutta, e se il gatto ha fame io Io gliene do, visto che ora posso.”
A Garbagna, terra montana, L’aria è fresca e la vita è strana. Alberi e fiori mi fan baldoria Perché sono qui a cercare gloria. Non cerco funghi, ma solo sentieri Da affrontare a passi leggeri Non è pianura, non è montagna Il mio viaggio comincia a Garbagna
Ho appena terminato la lettura de “Il giardino dei ciliegi” di Anton Cechov e, come spesso accade con le opere teatrali, mi sono ritrovato a riflettere sul loro vero “habitat naturale”: il palcoscenico.
Devo ammettere che, sebbene io preferisca l’esperienza della rappresentazione dal vivo, mi sono comunque immerso nella lettura cercando di visualizzare le scene e i personaggi. L’aiuto delle fotografie della storica messa in scena del 1974 di Giorgio Strehler è stato un valore aggiunto, ma l’emozione della diretta è, a mio avviso, insostituibile. Le opere teatrali nascono per essere interpretate, vissute e condivise in un momento unico e irripetibile.
Ma veniamo alla storia. “Il giardino dei ciliegi” ci trasporta nella Russia dei primi del ‘900, raccontando il declino di un’aristocrazia ormai in disgregazione. È una narrazione malinconica, priva di clamorosi colpi di scena, ma densa di un’intensità emotiva che pervade ogni pagina.
Beato te, Fabio, che non fai un ***** e hai tempo per leggere.
O per fare dei giri.
O per scrivere. Per fare dei corsi. Per fare cose. Per vivere. Per fare nuove attività. Io invece, che lavoro, che ho una vita, una famiglia, degli impegni, NON HO TEMPO.
Mica come te Fabio, tu si che vai bene, bella vita!
Ho letto questo libretto del 1973, “Le vergini del male”, di Jack Hunt, libro sconosciuto di autore sconosciuto di una collana sconosciuta, di un editore semisconosciuto. Perchè lo hai fatto, direte voi? Perchè ho talmente tanto arretrato di libri che a volte non riesco a scegliere e scelgo a caso. Così possono venirmi in mano queste “perle”.
Arriviamo al commento: librettino scritto credo in una settimana, molto banale, scontato, pieno di luoghi comuni. Va bene, l’ho finito in una settimana, ma solo perché avevo poco tempo, altrimenti lo potevo tranquillamente finire in un viaggio in treno.
Oggi è lunedì e la sveglia suona presto. Facciamo colazione nel nostro “appartamento” temporaneo e saliamo a bordo di “America“, la nostra fidata auto a noleggio (il nome è stato scelto da Leo con uno slancio di fantasia), per dirigerci verso la Valley of Fire. Dopo circa un’ora di viaggio sulla Interstate 15, eccoci immersi nel paesaggio desertico del Nevada.
Il caldo è opprimente, ma la bellezza delle rocce rosse ci ripaga. Ci fermiamo ad ammirare formazioni rocciose dalle forme bizzarre, come l’Elephant Rock, per raggiungere la quale affrontiamo un breve sentiero sotto il sole cocente. Il parco è magnifico, ma il caldo è davvero insopportabile, credevamo di morire. Il Visitor Center, con la sua aria condizionata polare, è un’oasi di refrigerio. Qui c’è pure qualcosa di gommoso da mangiare, meglio di niente.
Di ritorno a Las Vegas, facciamo tappa al famoso Pawn Shop di Rick Harrison. Siamo da Rick, siamo da Rick! La realtà, però, è un po’ diversa dalla TV: il negozio è più piccolo di quanto immaginassimo e Rick non c’è, ormai compare solo per qualche minuto al giorno per firmare autografi e fare selfie.
Tornati in hotel, ci accorgiamo di aver dimenticato gli anelli! Ci lanciamo in una frenetica ricerca nei centri commerciali, finché non troviamo due anelli in offerta speciale per meno di 30 dollari.
Dopo un breve riposo, ci prepariamo per la nostra “cerimonia” a Las Vegas. Non vi dico la faccia della signora delle pulizia che stava bussando mentre uscivamo quando ci ha visti agghindati da Darth Fener (AKA Vader), Principessa Leila (AKA Leia) e Baby Yoda (AKA Grogu). Una limousine ci porta alla Graceland Chapel, dove un Elvis in grande spolvero celebra il nostro matrimonio in stile lasvegiano, tra risate e battute (noi non capiamo quasi nulla, ma ci divertiamo un sacco). Scopriamo anche che sua moglie è abruzzese!
L’idea di tornare a piedi in hotel svanisce presto: la distanza è notevole, i nostri costumi sono pesanti e Leo è già esausto. Ci faciamo riportare dalla Limo e ci cambiamo.
Dopo optiamo per un “rinfresco” da McDonald’s, dopo una tappa al Venetian, con la sua riproduzione di Piazza San Marco. Brindiamo con una mezza bottiglia di Martini, approfittando della possibilità di bere alcolici per strada a Las Vegas (qui tutto è permesso: “Quello che succede a Las Vegas, rimane a Las Vegas”)
Purtroppo, la nostra esplorazione di Las Vegas è limitata. Di giorno siamo impegnati con le escursioni e la sera Leo crolla presto. Abbiamo trascinato il nostro piccolo zombie fino all’albergo perché non si reggeva più in piedi e ci ripromettiamo di tornare prima o poi nella vita, per scoprire meglio questa città dalle mille luci.
Un uomo e una donna a cena. La serata era iniziata bene, ma ora l’atmosfera si era fatta tesa.
“Forse stai esagerando,” disse LEI, con un tono di voce controllato.
“Può darsi, ma cerca di pensarci,” rispose LUI, evitando il suo sguardo.
“Quando fai così…” iniziò lei, ma si interruppe.
“Così come?” chiese lui, alzando un sopracciglio.
“Quando fai così, so già dove vuoi arrivare,” continuò lei, con un velo di frustrazione nella voce.
“Ah sì? Sentiamo!” sbottò lui, incrociando le braccia.
“Cosa?” chiese lei, sorpresa dalla sua reazione.
“Dove voglio arrivare,” ripeté lui, con un tono di sfida.
“Lo sai,” si lagnò lei, abbassando lo sguardo.
“Ecco,” disse lui, con un sorriso sarcastico. Lei lo guardò, interrogativa.
Lui, serafico, spiegò: “Quando le donne dicono ‘lo sai’, lo fanno apposta per mandarti in confusione. No che non lo so, dimmelo tu!“
“Non alzare la voce!” lo ammonì lei, con un sussurro carico di rabbia.
“Dimmelo tu,” ripeté lui, sottovoce, ma con fermezza.
“Tu mi dici ‘cerca di pensarci’ come fosse un consiglio, un suggerimento, invece è un ordine,” disse lei, con un tono di accusa.
“Addirittura? Un ordine?” chiese lui, con finta sorpresa.
“Sì, certo. Tu mi dici ‘pensaci’, ma pensi ‘fallo!’” affermò lei, con convinzione.
“E tu dici ‘lo sai’ e invece sai che non lo so,” replicò lui, con un sorriso beffardo.
Ci fu un attimo, brevissimo, di silenzio. Si guardarono negli occhi, dimenticandosi per quella frazione di secondo chi erano, dove si trovavano, cosa stavano facendo. Durò pochissimo.
“Va bene,” disse lui, rompendo il silenzio, “lo so“. “Lo so,” ripeté, continuando a guardarla negli occhi.
“Va bene, ci penserò,” disse lei, non distogliendo lo sguardo. “Ci penserò… papà“.
Oggi si vive fino a ottant’anni, ma si và a scuola solo per i primi venti. C’è quel “buco” educativo di sessant’anni che potrà essere colmato solo da un’informazione e da una formazione continua e corretta, in modo da creare persone sintonizzate con il proprio tempo. Piero Angela (dal libro La Meraviglia del Tutto)
Una riflessione sulle borse di plastica (e sugli imballaggi in generale): tassarle serve davvero a ridurre l’uso? Temo di no. Serve più a lavarsi la coscienza e a fare cassa, un po’ come i messaggi allarmanti sui pacchetti di sigarette che, diciamocelo, non hanno mai fermato un fumatore.
Nel mio negozio, ogni giorno, mi trovo sommerso da un’ondata di plastica inutile: prodotti imballati singolarmente, poi raggruppati in confezioni ancora più grandi. Ogni arrivo di merce si traduce in due bidoni stracolmi di questa plasticaccia.
Vogliamo davvero fare la differenza? Allora smettiamola di prenderci in giro con i 10 centesimi per il sacchetto della verdura al supermercato. Un palliativo che non risolve il problema alla radice. Perché, diciamocelo, quel sacchetto siamo obbligati a prenderlo, il costo aggiuntivo non cambia la sostanza.
La vera soluzione è una sola: vietare la plastica superflua. Punto.
Scommettiamo che, di fronte a un divieto, i “geni” dell’industria troverebbero alternative valide in un batter d’occhio? Ma finché la plastica è consentita, chi si prenderebbe la briga di cambiare?
Ricordo quando da bambino andavo al negozietto del paese: la spesa era un rito semplice e sostenibile. Mele nel sacchetto di carta, pane avvolto allo stesso modo, pasta nel cartone, latte e aranciata in bottiglie di vetro, focaccia nella carta oleata, detersivo nel cartone. E tutto questo trasportato in una sportina di cotone.
Oggi, torniamo a casa con montagne di plastica: banane, carne, pasta, merendine, verdura, formaggio, pesce… l’elenco è infinito. Però i 10 cents del sacchetto dei pomodori ci rendono “green“? Un’ipocrisia che grida vendetta.
È ora di smetterla di prenderci in giro e di affrontare il problema con serietà. Vietare la plastica inutile è l’unica strada percorribile.
Questo anello di circa 9 km parte (e arriva) da Menconico, scende verso Montemartino, risale fino alla strada per Roncassi e scende di nuovo a Carrobiolo e quindi Menconico. Il tutto quasi completamente su sterrato.
“Come una notte a Bali” di Gianluca Gotto è un libro che mi è piaciuto per la sua sincerità e il suo romanticismo. L’autore ci conduce in un viaggio che molti di noi hanno sognato: lasciare tutto e partire alla scoperta del mondo, liberi da vincoli e convenzioni.
Il protagonista, un giovane milanese (anche se non c’è scritto, l’ambientazione è quella), si trova a un bivio: una relazione in declino, un lavoro insoddisfacente, la pressione delle aspettative sociali. La sua reazione è un atto di coraggio: un biglietto di sola andata per Bali, alla ricerca di se stesso e di una nuova prospettiva.
Gotto descrive con vividezza le emozioni e le scoperte del protagonista, trasportando il lettore in un’avventura che è al tempo stesso interiore ed esteriore. Il libro è una riflessione sulla libertà, sull’importanza di seguire i propri sogni e sul coraggio di cambiare rotta quando la vita ci sembra stretta.
Gotto è uno scrittore e viaggiatore, conosciuto per il suo blog “Mangia Vivi Viaggia” dove condivide le sue esperienze di viaggio e riflessioni sulla vita.
Approfittando di una bellissima giornata di nebbia il nostro Fabio ci conduce in un percorso, metà asfalto e metà sterrato, nel comune di Montesegale PV