

I tuoi figli non sono figli tuoi.
Sono i figli e le figlie della vita stessa.
Tu li metti al mondo ma non li crei.
Sono vicini a te, ma non sono cosa tua.
Puoi dar loro tutto il tuo amore,
ma non le tue idee.
Perché loro hanno le proprie idee.
Tu puoi dare dimora al loro corpo,
non alla loro anima.
Perché la loro anima abita nella casa dell’avvenire,
dove a te non è dato di entrare,
neppure col sogno.
Puoi cercare di somigliare a loro
ma non volere che essi somiglino a te.
Perché la vita non ritorna indietro,
e non si ferma a ieri.
Tu sei l’arco che lancia i figli verso il domani.
Khalil Gibran
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Ho letto questo libro di Adriana Maria Soldini, “Oltrepò Pavese – 35 borghi imperdibili”.
Un altro esempio di quello che si predica sempre (ma non si “razzola” bene così spesso), vale a dire che il nostro territorio non solo ha delle bellezze naturali che niente hanno da invidiare ad altre località italiane più frequentate, ma sono piene zeppe di storia e cultura.
Non c’è luogo in Oltrepò che non abbia qualche castello, palazzo, torre, chiesa, villa o quant’altro che riporti alle vicende di qualche signorotto, o monaco, o militare, o santo.
Da Volpara a Bagnaria, da Menconico a Oliva Gessi, da Arena Po a Zavattarello e via ancora per Codevilla, Cecima, Rocca de’Giorgi, Casei Gerola… perdendosi negli aneddoti, nelle descrizioni, e nelle tante foto raccolte anche da tanti che conosco (e di cui conosco l’amore per questo territorio e soprattutto per il “Bello” con la B maiuscola. D’altronde a questo mondo ci sono tante brutture e il tempo è poco, tanto vale dedicarsi al Bello, no?)
Un must, imperdibile.
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L’anno scorso ho subito un paio di volte la rottura dei vetri del mio negozio. Più di mille euro spesi per ripristinarli, oltre all’angoscia che, volente o nolente, aleggiava in me e nella mia famiglia (con un bimbo piccolo è oltretutto inevitabile).
Le telecamere del circuito di sorveglianza potrebbero aver ripreso il colpevole, ma anche di fronte all’evidenza… cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete, un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate…
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«Scusa il ritardo» disse Gianni, «vado un attimo in bagno e sono pronto. Intanto, tieni questa». Appoggiò quella cosa sul pavimento e sparì nella toilette.
Era di metallo e plastica. Un sostegno di ferro, o alluminio, che reggeva un ripiano orizzontale di bachelite. Poteva servire come appoggio, ma la particolarità era un altro ripiano, più piccolo, obliquo, dello stesso materiale.
Un altro di quegli oggetti bizzarri creati da Gianni nei suoi pomeriggi di design applicato a cui io, che ero la parte un po’ meno creativa e più descrittiva del duo, avrei dovuto dare un nome.
Mentre lo aspettavo cercavo di capirne il possibile utilizzo. Assolutamente incomprensibile, ma l’idea del nome ce l’avevo già chiara: CADREGA!

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“Il gran parte, gli individui che agiscono in modo malvagio si considerano brave persone che combattono le forze del male’
E talvolta, aggiungo io, trovano anche persone che gli danno ragione e questo acuisce il problema (che non è un problema loro, ma di tutto il resto del mondo). Ma io confido che prima o poi i nodi vengano sempre al pettine, checcé ne dicano le urla degli straccivendoli.
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Ho letto questo libro di Alessandro Reali: “Il giallo della valigia di piazzale Lodi”
Siamo nel 1965. Il commissario Caronte indaga sulla scomparsa di una ragazza.

Cosa mi è piaciuto: la storia regge abbastanza bene ed è ambientata in una città che mi piace in un periodo storico di grande fermento. Reali dipinge alcuni scorci di una Milano che ormai non c’è più. Una Milano più vera, più milanese (tante frasi in dialetto meneghino messe in bocca ai personaggi), che si gira più facilmente così come facilmente si raggiunge la periferia e la campagna. Dove al bar ci si conosce tutti, dove ci sono ancora le latterie e i negozi di merce usata.
Cosa non mi è piaciuto: in alcuni punti, proprio verso il finale, un’accelerazione improvvisa nel racconto. Un po’ spiazzante, avrei preferito qualche pagina in più di svolgimento della storia.
Nota: perché anche la donna del commissario, pur nell’intimità di una cena tête-à-tête, lo chiama Caronte e mai per nome? (Un po’ come il tenente Colombo, di cui nessuno conosce il nome di battesimo)
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Quando ero ragazzino, talvolta mio papà mi portava con sé quando andava a fare acquisti per il negozio perché diceva che “si impara più che andare all’università” (ed è assolutamente vero).
Da Castelnuovo Scrivia a Milano, da Sannazzaro a Piacenza, fino a Reggio, Carpi, Modena, Bergamo, Genova. Da San Martino in Strada (LO) a Marostica (VI), da Firenze a Bormio, da Busto Garolfo a Montebelluna, anzi no.
In realtà a Montebelluna insieme a lui non ci sono mai stato, ma un racconto su due delle sue gesta meravigliose era ambientato là, in quel paese del trevigiano dove la realtà si mischiava alla leggenda. Siro diceva sempre che la sua fortuna nel commercio era iniziata proprio nella mitologica zona di Montebelluna, patria di numerosi calzaturifici dove lui comprava scarpe sportive, da escursione e da sci.
Da quelle parti producevano: Dolomite, Tecnica, Munari, San Marco, Asolo, Scarpa, San Giorgio, Nordica, Aku, Trezeta, Garmont, Diadora, Lotto e chi più ne ha più ne metta. Lui partiva al mattino presto e tornava la sera tardi, dopo abili contrattazioni che gli permettevano (insieme al pagamento immediato e tanta serietà) ad ottenere prezzi incredibili.

Vederlo all’opera era una lectio magistralis in economia. Sapeva quali erano i prodotti giusti, il prezzo giusto, il modo giusto di trattare, e non sbagliava (quasi) mai.
Erano tempi in cui, io sono riuscito appena a vederli, entravi nella fabbrica, vedevi gli operai intenti a costruire qualcosa di unico e importante, e parlavi direttamente col proprietario. Poi siamo passati ai magazzini, con i macchinari accantonati, e parlavi col manager. Adesso comunichi via email e vedi tutto sul web, ma su disegni e non su foto, perché i prodotti ancora devono fabbricarli, in Cina.






