(raccolta molto sparsa di pensieri)

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Agosto 1944 sul monte Alfeo

lo zio Dario Rebolini, 1924-2020

Ho già parlato di mio zio, Dario Rebolini e del libro che raccoglie le sue memorie di gioventù: I tre colonnelli. Mi rifaccio a quel post per rinnovare le mie opinioni sulla guerra, e sulla guerra civile in particolare. Ho messo anche un video dove racconta le sue avventure da partigiano: Il partigiano Dario. Ora voglio invece pubblicare qui un passaggio di un altro libro che ha scritto, “Bisagno e i suoi partigiani”. Anche in questo caso mi ha colpito il clima che c’era allora, quando la linea tra la morte e la vita era davvero sottile, e quello che prima era un nemico mortale poteva poi essere un amico fraterno e viceversa. Ribadisco: gran brutta cosa la guerra.

Tutti i paesi, piccoli o grandi, erano occupati dagli alpini. Ogni tanto s’incontrava qualche pattuglia e bisognava scorgerli per primi e attaccarli di sorpresa, se no sarebbero stati guai grossi, come purtroppo è toccato a qualche gruppo, con bilanci tragici. Un giorno ci siamo trovati sulla cima del monte Alfeo, dovevamo tenere sotto osservazione Zerba, che era occupata dagli alpini dal giorno prima. Noi aspettavamo che se n’andassero per tentare di rimediare qualcosa per lo stomaco. Pochi metri più giù, dalla parte opposta, verso Gorreto, ci passava un sentiero, che proseguiva sotto costa. C’eravamo appena appisolati sotto un grande faggio, nell’attesa che gli alpini se n’andassero da Zerba.

Nel dormiveglia mi era sembrato di sentir parlare; eravamo sottovento, forse noi sentivamo loro, ma loro non sentivano noi; cercai di svegliare gli altri nel massimo silenzio, preparammo le armi leggere che avevamo ancora e, in ginocchio, gattonando piano piano, ci siamo affacciati sul sentiero per vedere che succedeva. A quindici metri da noi, su quel benedetto sentiero, vi era una squadra di alpini seduti, mezzi spogliati per il caldo, mezzi stravaccati sul prato e qualcuno anche senza scarpe, senza giacca, né armi. Saranno stati una dozzina.

Dato il tremendo caldo e la tranquillità di quel posto (lì non avrebbe dovuto esserci nessun pericolo) avevano abbandonato tutto per terra e stavano lì, a riposare e prendere il fresco della montagna. Noi ci siamo subito ritirati per decidere il da farsi e per studiare il modo migliore di attaccare.

Fra noi non vi era nessun comandante, diciamo che l’unico un po’ più responsabile avrei dovuto essere io, in quanto dopo tanta fame stavo per portarli a Zerba dai miei, o da qualche vicino, dove avremmo sicuramente trovato chi ci avrebbe fatto una bella polenta, o magari un bel piatto di lasagne al sugo (fantasie a quei tempi).

Eravamo lì, su quel monte, proprio per vedere se ci fossero movimenti di truppe o se si poteva tentare di avvicinarsi alla casa senza pericolo, dato che era l’ultima del paese ed era facile prevenire il pericolo.

Avevamo due bombe a mano ciascuno. Io avevo ancora il mio mitra che avevo portato da Sacile e che non mollavo mai, gli altri avevano lo sten e qualche fucile. Il primo impeto era stato di attaccarli con le bombe a mano e raffiche di mitra e sten, li avremmo trucidati con facilità, ma sarebbe stata una tremenda carneficina. Fortunatamente fra noi vi era anche un ex alpino, che aveva disertato appena erano iniziate le prime battaglie. E questi, o per spirito di corpo, o per simpatia verso i suoi ex, ci ha un poco raffreddati dicendoci che gli alpini non erano fascisti, che erano da combattere per la divisa che portavano, e comunque in un altro contesto, ma erano quasi tutti contadini del veneto e quindi brava gente, non si poteva trucidarli così. Con il senno di poi c’erano da fare due considerazioni. La prima: se ci fossimo stati noi, loro come avrebbero agito? Seconda: erano momenti cruciali, se vuoi salvarti la vita devi prima sparare e poi pensarci. Abbiamo fatto alla rovescia ed è andata bene per tutti. Dopo una decina di minuti, mentre noi stavamo sul chi vive con le armi puntate, piano piano si sono rivestiti e in fila indiana li abbiamo accompagnati con lo sguardo fino all’orizzonte, verso la strada che porta a Varni. Quando poi, più tardi, il loro battaglione si è arreso al completo al nostro comando, e sono diventati tutti partigiani al nostro fianco, sono andato a Gorreto, nel castello dove erano alloggiati, per cercarli. Ho chiesto della pattuglia che quel giorno si trovava a passare di lì, e li ho trovati.

Al primo racconto non si sono emozionati più di tanto, ma quando sono ritornato con l’ex alpino, l’uomo che li aveva salvati, e gli abbiamo spiegato bene tutto quello che avevamo fatto su quel sentiero, allora hanno capito e abbiamo fatto una bella mangiata da Nando, con una bella bevuta insieme.

Palmira

Palmira Lamari, nata il 28 marzo 1904 e morta il 18 maggio 1960, mia nonna, sposa di Giacomo Rebolini, mio nonno.

I bisnonni

Questi sono i miei bisnonni materni, vale a dire i nonni di mia mamma. Teresa Borrè, nata il 2 maggio 1865 (la capitale d'Italia era Firenze) e morta il 7 marzo 1950 (i miei non erano ancora sposati). Lorenzo Rebolini, nato il 29 marzo 1856 (sotto il Regno di Sardegna, presidente del consiglio Camillo Benso e re Vittorio Emanuele II) e morto il 15 giugno 1938 (mia mamma aveva 9 anni). Mio zio Renzo prese il nome dal nonno, mente mia mamma prese un nome dalla nonna, infatti all'anagrafe era Maria Teresa, anche se detta Rita.

Il partigiano Dario

 

Mio zio, Dario Rebolini, racconta la sua avventura da partigiano.

La favola del Lupo e dell’Orso

Cercando dei documenti, trovo in un cassetto una lettera, inviata nei primi giorni del 1998 a mia mamma Rita da suo fratello, Dario, con allegato una favola. Si, proprio una storiella per bambini, che Dario aveva inventato per un suo nipotino. Ricordo che molte volte mia mamma mi aveva citato questo racconto, ne era stata molto favorevolmente colpita. E mi aveva raccontato anche di questo bambino "americano". Di mio zio ne avevo già citato l’articolo (clicca qui) e il libro (clicca qui) e a breve ci sarà ancora un post a lui dedicato.

La lettera è molto tenera e spontanea, poetica, a tratti formale (di quella formalità dal sapore antico) a tratti gioviale. "[…] dopo i tuoi suggerimenti e aggiustamenti e limando, limando, sembra sia venuta abbastanza bene, tanto che il mensile ESPERIENZA le la ha pubblicata."

Ecco la favola del "Lupo Malos":

Mi arriva da Boston un nipotino di quattro anni, Gabriele: padre italiano, medico ad Harvard, madre già architetto a Caracas e oggi casalinga. Bene. Appena arrivato dorme per quasi due giorni consecutivi (a seguito del fuso orario). Poi basta. Non c’è più verso di farlo addormentare, finché chiedo ai suoi genitori di farmi provare. Accordato. Prendo Gabriele in braccio dicendogli che gli avrei raccontato la favola del lupo cattivo (che lui chiamerà malos, dalla lingua venezuelana) e dell’orso buono. Mi avvio alla finestra e comincio. Non ci si crederà ma, dopo pochissimi minuti, si addormenta, e così tutte le sere seguenti per un mese intero. Alla fine bastano poche filastrocche ed è già nei sogni di Morfeo. Quando poi è venuta l’ora di ripartire voleva che andassi con lui per continuare a raccontargli la favola. Così siamo arrivati ad un accordo: gli avrei scritto la favola del lupo "malos" e sua madre gliel’avrebbe letta. La favola? Eccola. Giuseppe Rebolini, Genova. (Si, in realtà lo zio Dario si chiama Giuseppe, NotaDiFabio)

Una mattina Dario e Gabriele decidono di andare a caccia nel bosco. Gabriele arma il suo fucile turbo, nuovo fiammante, ad acqua bollente e Dario la sua doppietta modello 1939 con cartucce caricate a pallettoni di plastica (più per difendersi che per offendere). Poi, naturalmente, oltre all’armamento, preparano anche due robusti zaini da montagna con borracce piene di whisky-soda e Coca-cola, più una robusta scorta di Nutella e salame di Varzi. Dopo circa due ore di marcia eccoli arrivati nel terreno di caccia, cioè nel bosco. Un bosco fantastico, con querce e pini secolari che salgono con le cime verso il cielo, quasi imprendibili. Camminando così nel sottobosco, oltre ai  rumori che procurano i loro passi, sentono in lontananza un vocio di suoni non ben definiti. Stanno un poco a sentire, poi decidono di proseguire, sperando di riuscire a capirne di più. Ad un certo punto però Gabriele (dall’orecchio fino) dice a Dario (mezzo sordo): «Attento! Mi pare di sentire un lupo malos». Detto fatto: appena Dario si volta per guardare alle sue spalle, vede a dieci passi di distanza un grosso lupo malos che digrigna i denti in un modo da non lasciare alcuna speranza. Così Dario imbraccia il fucile e spara: tam-tam, due colpi dritti e precisi nel sedere del lupo molos, il quale – sentendosi bruciacchiare la pellaccia – si ritira per qualche metro. Ma poi, avendo capito che oramai il pericolo era passato e che il fucile era scarico, ritorna sui suoi passi costringendo i due a ripiegare velocemente, alquanto spaventati, verso un grosso pino. Gabriele, agile e veloce, vi si arrampica con molta facilità salendo sino alle cime più alte, tanto in alto da sembrare "la piccola vedetta lombarda", mentre Dario – più lento e appesantito – si accontenta (ansimante) di conquistare le prime posizioni di sicurezza. Intanto il lupo malos si piazza ai piedi della grossa pianta digrignando sempre più quei lunghi denti, consapevole che prima o poi sarebbero dovuti scendere. E allora avrebbero sicuramente fatto i conti con lui. Dopo qualche ora di scomoda attesa, Gabriele con il suo giovanile entusiasmo e coraggio dice a Dario di voler scendere ad affrontare il lupo malos con il suo potente fucile "turbo" caricato ad acqua bollente. Ma mentre Dario, non troppo convinto dell’esito positivo dell’azione. discute con Gabriele, eccoti arrivare un grosso Orso Bruno. Una figura fantastica, grosso come una montagna, stupendo nella sua maestosa figura, che avanza con passi sicuri e cadenzati quasi a far tremare la terra sotto le sue zampe. E loro, lì, fermi quasi senza respiro. 

Quando arriva sotto l’albero, stacca di colpo un grosso ramo e a mo’ di clava lo usa contro il lupo malos, il quale, capito al volo il pericolo, se la dà a gambe levate senza nemmeno voltarsi indietro. A questo punto incomincia una lunga "trattativa" con l’Orso Bruno: prima non ci si capisce, non è ben chiaro il suo linguaggio. Gabriele con la sua precoce cultura e le sue tre lingue straniere, prova con l’inglese. E da qualche cenno non sembra che capisca. Prova con lo spagnolo e qui va un poco meglio. Allora passa decisamente all’italiano. Ed è a questo punto che l’Orso Bruno si avvicina all’albero e, abbracciandolo come se volesse sradicarlo, dice: "Venite giù che sono vostro amico". E così, ancora un poco titubanti, Dario e Gabriele scendono dall’albero cominciando a scambiare qualche piccola frase di convenienza, tanto per tastare il terreno. Ma l’Orso Bruno li mette subito a loro agio dicendo che lui è amico del contadino che si trova dall’altra parte del bosco, dove va ogni notte a fare il "guardia-campo" contro i branchi di cinghiali affamati e devastatori. Dal contadino riceve in cambio le provviste per sfamare la propria famiglia. Così piano piano. seguendolo passo passo, i due arrivano nel bel mezzo del bosco dove, dietro una grande roccia, l’Orso ha la sua caverna-casa e cominciano le presentazioni. Mamma Orsa, stupendo esemplare di madre di famiglia, con fare dolce ma deciso, invita i due a entrare e a sedere. mentre tutto intorno è un incredibile brulicare di abitanti del bosco. Due belle gallinelle offrono un piattino di uova fresche che Mamma Orsa si appresta a mettere in tegamino, avendo capito al volo che il cacciatore più giovane, Gabriele, ha una fame da "lupi". Poi arriva il coniglio bianco, chiamato Ciuffetto, che comincia ad annusare le scarpe di Gabriele prima di saltargli in braccio e arrampicarsi su fino alla spalla; c’è pure il gattone bianco a chiazze nere, Micione, che dopo aver fatto una strusciata intorno alla gambe di Gabriele, si mette in un angolo appartato a russare. Arriva anche la volpe, Marianna, che avrebbe dovuto dare una mano a Mamma Orsa nel disbrigo delle faccende di casa, ma essendo furba come (appunto) una "volpe", si guarda bene dal fare qualcosa. Per non ripulire per terra o non lavare i piatti le studia sempre tutte: si fascia le zampe facendo finta di essere ferita, si trucca gli occhi con del carbone nero fingendosi ammalata. Ma nessuno oramai ci crede più. C’è pure Birbetto, lo scoiattolo rosso mattone con la sue lunga coda, sempre pronto a fare dispetti: come, per esempio, quello di portare via le scarpe a tutti di notte per nasconderle nell’albero cavo dove si è costruito una specie di dependance e dove si diverte un sacco a portare tutto quello che trova. Ogni tanto si becca anche qualche sculaccione da Mamma Orsa. Ma la prende sempre a ridere. Dopo aver conosciuto la famigliola di Orso Bruno e dopo che Mamma Orsa ha cucinato, tutti si siedono a tavola impeccabilmente serviti da Marianna, trasformatasi per l’occasione in una sorta di "Pippi calzelunghe", con i ciuffetti sparati in aria e con al centro un cappellino da fare invidia a quelli della Regina Elisabetta d’Inghilterra. Vuoi per l’appetito, vuoi per il gusto della nuova cucina, fatto sta che viene spazzato via tutto, compreso un barattolo di Nutella che Gabriele si è sentito in dovere di fare assaggiare ai nuovi amici. Anche il salame di Varzi sparisce in un attimo, soprattutto ad opera dell’Orso Bruno che sostiene di non averne mai mangiato di così buono. A questo punto, dopo i complimenti d’obbligo alla cuoca, vengono invitati gli altri animali del bosco a prendere il caffè e fare due chiacchiere alla buona prima di coricarsi. Arriva per prima la famiglia del tasso, con la moglie e le due figlie. L’Orso Bruno non si lascia allora scappare l’occasione di fare un benevolo rimprovero al tasso, che spesso si lascia attirare dal bel raccolto di granturco del contadino (amico dell’Orso Bruno) e ne approfitta a quattro ganasce costringendolo a fare una guardia così serrata al campo tanto da non potersi appisolare nemmeno un poco durante tutta la notte. Secondo ad arrivare è la famiglia dell’Orso Nero, anche questa composta da Mamma Orsa e due orsacchiotti neri, così lucidi e brillanti che sembrano dipinti dalla mano di un pittore con colori "Max Mayer". I due frugoletti si arrampicano in braccio a Gabriele leccandolo su tutto il collo e la faccia per dimostrargli la loro incondizionata amicizia. La serata passa così, veloce e felice; e dopo la prima ne passano altre, per circa una settimana… davvero indimenticabile. Sulla via del ritorno, Dario e Gabriele vanno adagio voltandosi a ogni passo. Già pensano alla prossima battuta di caccia che forse faranno in autunno. Ma intanto sono contenti, perché hanno vissuto un sogno permesso a pochi.  

I Ragazzi Del Lesima – 5

Il giovane venditore rimase qualche minuto pensieroso.
“Una maestra… addirittura… una maestra… Quando andavo a scuola a Corbesassi avevo un maestro che arrivava da Varzi, o da un paese vicino. Mi sembrava altissimo, intelligentissimo, vecchissimo e soprattutto molto austero e severo. Io, per fortuna, me la cavavo molto bene in aritmetica e quindi riuscivo a scusare qualche carenza nelle altre materie. Non avevo mai conosciuto prima d’ora una maestra, soprattutto una della mia età. Caspita: una maestra, una vera maestra!”.
Fu destato da una mano che si era posata sulla sua spalla: era lei!
“Allora, ci facciamo un ultimo giro? Però devi promettermi che stai più attento e cercherai di non pestarmi troppo i piedi”.
E ballarono, ballarono, ballarono fino al tramonto. Il ragazzo si rese conto che doveva imboccare la via del ritorno, aveva parecchia strada da fare per tornare a casa.
“Il mese prossimo c’è la festa a Vezimo, vieni?” disse la maestrina di Zerba.
“Credo proprio di sì, allora ci vediamo là, così puoi darmi altre lezioni di ballo.”
“Volentieri, mi sei molto simpatico, e pensare che mia mamma mi aveva parlato male di te.”
“Ah si? Posso conoscere il motivo di questa antipatia?”
“Beh, diceva di starti alla larga perché sei un commerciante, e quindi un buono a nulla, uno che non è capace neanche di andar nei campi o curare gli animali, e poi che sei uno sbruffone, un fanfarone. Sai, i miei genitori hanno fatto dei sacrifici per permettermi di studiare e vorrebbero per me qualcuno che abbia un lavoro solido e un avvenire garantito, non un mercante.”
“Aspetta un attimo, non ti sembra di correre un po’ troppo? Abbiamo solo ballato insieme.”
“Hai ragione, scusa” disse lei diventando tutta rossa, e aggiunse: “Allora ci vediamo, ciao”. E corse via, verso casa.

Durante il viaggio di ritorno il ragazzo non fece che pensare a quegli occhi, a quelle parole, i balli di quel pomeriggio, a quella figura minuta, i suoi capelli, le sue mani. Pareva che i propri piedi camminassero da soli lungo il sentiero del Lesima, non sentiva né il freddo né la fatica. Non era preoccupato, ma neanche soddisfatto, di come erano andate le vendite. Non gli importava più, pensava solo a lei, la maestra, la ragazza di Zerba, e quando fu arrivato vicino a casa i suoi pensieri si erano riassunti in una sola, forse avventata, ma solida, convinzione: “Io, un giorno, la sposerò!

Qui finisce, per noi, questa storia, che è un po’ vera e un po’ narrata sulle ali della fantasia. Non so veramente come siano andate le cose, non so come realmente si siano incontrati, come si siano conosciuti, ma mi piace immaginare che sia andata proprio così, come vi ho raccontato. Quello che so per certo è che la favola del commerciante e della maestra è una bella storia, che è durata tutta la vita. Ancora oggi, che hanno passato gli ottant’anni, quando guardano il monte Lesima, ai cui fianchi sono cresciuti e vissuti, pregano verso la croce che svetta sulla sua cima, e ringraziano il Signore per tutto ciò che gli ha regalato. Come faccio a sapere tutte queste cose? Perché il ragazzo di Ponti e la ragazza di Zerba li conosco molto bene: li vedo tutti i giorni da quando sono nato!

I Ragazzi Del Lesima – 4

A metà pomeriggio le vendite erano andate abbastanza bene: qualche metro di stoffa, cinque o sei pezze, era riuscito a vendere anche le uova ricevute in pagamento alla mattina. Aveva mangiato tardi: un po’ di polenta, un pezzo di pane e il formaggio che si era portato da casa, seduto sulle grosse radici di una pianta che sbucavano dal terreno. Anche in seguito si sedette lì, per riposarsi un po’ e guardare la gente ballare. Lui non era un granché come ballerino, si reputava goffo e impacciato, preferiva darsi al canto, soprattutto se agevolato da un buon vino rosso: «Mariolin, bella Mariolin, Mariolin, bella Mariolin, ma dove hai messo quel bambino che avevi?». Che bella che gli sembrava la vita: una canzone, un bicchiere di vino, una bella festa e un numero sufficiente di vendite. Quando sarebbe tornato a Ponti suo papà sarebbe stato sicuramente contento. A proposito del ritorno: un bel sole riscaldava la giornata e lui sperava che riuscisse a sciogliere la neve che ancora resisteva su quel tratto di sentiero per tornare a casa.

A destarlo dai suoi pensieri ci pensò un giovanotto di Zerba, che conosceva bene:
“Non balli? Che fai lì da solo? Non dirmi che non sei capace”, esordì.
“No, mi sto solo riposando, adesso ballo” rispose lui, che non voleva ammettere la sua inesperienza.
Si drizzò in piedi, e, con fare sapiente, scrutò il ballo per vedere se tra gli astanti c’era qualche dama libera da poter accompagnare. Pose gli occhi su una fanciulla: minuta, cappelli castani lunghi e un po’ mossi, un viso dolce, vestita tutta a puntino per la festa. Sembrava fosse lì apposta per farsi invitare.
“Ciao, ti va di ballare?” le disse.
“Volentieri”.
E ballarono. Il ragazzo non era, per l’appunto, molto abile, e finì per andare spesso fuori tempo e addirittura per pestare i piedi alla sua damigella, ma non se ne fece un cruccio, era rapito dagli occhi di quella ragazza e avrebbe voluto stare con lei tutto il pomeriggio ed anche la sera. Lei, a sua volta, pareva quasi non accorgersi di qualche movimento sgraziato del suo cavaliere.

Dopo qualche danza si divisero, c’era una vecchina interessata alle sue stoffe: gli affari chiamavano e lui, prontamente, rispondeva. La signora aveva preteso un forte sconto per via dell’ora tarda, sostenendo che altrimenti lui sarebbe dovuto tornare a casa con la stoffa invenduta, invece lei gli avrebbe fatto quasi un piacere a comprargliela, ad un prezzo ridotto, s’intende. Mentre dava retta alla cliente, il giovane mercante non riusciva a smettere di guardare sottecchi la giovane donna con cui aveva ballato. Si accorse che anche lei lo guardava, seppur pudicamente per non dare troppo nell’occhio. Passò di lì ancora quel suo amico che lo apostrofò:
“Guarda che ti ho visto come stai osservando quella li, fai attenzione, non farti idee strane”, ma lui prontamente rispose a tono:
“Che stai dicendo, ti riferisci a me? Io? L’ho solo fatta ballare perché era l’unica da sola in quel momento.”
 “Amico, a me non la dai a bere, la stai mangiando con gli occhi. E anche lei non smette di ronzarti attorno. Dammi ascolto, lascia stare, è la sorella di un mio amico, la conosco bene, ed è una buona a nulla.”
“Come, una buona a nulla?”
“Ma sì… figurati, dicono che non è neanche capace di andare al pascolo con le bestie. I suoi l’hanno fatta studiare, è diventata da poco maestra, si è diplomata a Bobbio.”
“Caspita, una maestra? Beh, io a scuola ero un campione con le tabelline…”
“Te lo ripeto, lascia stare. Non pensare che sia una di quelle maestrine di città, questa qui è una che ha studiato perché, secondo me, non ha voglia di lavorare. Pensaci: cosa se ne farebbe un uomo di una moglie che non sa neanche curare due galline e pensa solo ai libri? A parer mio non è capace neanche di sistemare casa”.
E, con quest’ultimo giudizio, l’amico se ne andò a fare un ulteriore ballo.

I Ragazzi Del Lesima – 3

Quando fu molto in alto, sopra Prodongo, c’era un tratto del sentiero che era tutto all’ombra ed era ancora pieno di neve. Ad un certo punto il mulo, testardo come vuole la tradizione popolare, si arrestò nel suo incedere e non volle in alcun modo proseguire. Il ragazzo ci si mise d’impegno, prima con le parole, poi con le minacce urlate, poi ancora con le carezze e infine spingendolo malamente. Lo spronava e lo spintonava, mentre la neve gli entrava nelle scarpe. Anche se era giorno di festa non aveva potuto mettersi le scarpe nuove che suo padre gli aveva comprato recentemente perché, sapendo che tipo di strada avrebbe dovuto percorrere, gli avevano proibito di indossarle, calzando viceversa quelle vecchie. Queste erano ormai rotte e sfilacciate, oltre al fatto che gli andavano strette, procurandogli notevoli spelature quando le indossava per lunghi viaggi. Suo padre gliele aveva comprate al mercato di Varzi, usando come sempre il metodo del “bacchetto”: una piccola asta di legno che aveva pressappoco la lunghezza del piede. Potete ben immaginare che con quella pratica approssimativa le calzature acquistate erano quasi sempre di misura sbagliata. Nel caso fossero state troppo grandi bastava legarle un po’ più strette, ma quando erano troppo piccole erano causa sicura di sofferenze.

Dai e dai, spingi e spingi, alla fine il mulo si decise a ripartire.
“Che faticaccia, ed io ho solo un mulo: chissà come aveva fatto Annibale a passare da queste parti con un esercito di elefanti” pensò il ragazzo, riferendosi al grande condottiero cartaginese. Egli transitò proprio da quelle parti, prima di combattere la battaglia della Trebbia, e si dice che il nome del monte Lesima derivi proprio dal latino “Lesa manus”, per indicare una ferita alla mano subita dallo stratega africano. Il giovane di Ponti non aveva mai visto un elefante, neppure disegnato, ma gli era stato detto che si trattava di animali mastodontici.
“Sarebbe bello averne uno” pensò scherzosamente “oppure possedere un’automobile, come i signori di città, e girare in lungo e in largo, adesso che ci sono le strade!”

Il sole era già alto e il nostro commerciante voleva essere a Zerba molto prima dell’ora di pranzo, in modo da avere a disposizione l’intera giornata per piazzare la sua mercanzia.
“Speriamo di vendere, in modo da non sentirmi anche stavolta i rimproveri quando torno a casa, e che perlomeno ci sia da divertirsi”.
I suoi genitori, come spesso accadeva in quegli anni, erano molto severi, e suo padre non transigeva dal lavorare sodo e pensare il meno possibile ai divertimenti, ma lui aveva quasi vent’anni: pur dando il giusto peso al suo lavoro – che in ogni modo gli piaceva più di ogni altra cosa – era pur sempre un ragazzo e come tale aveva piacere nella compagnia e nel divertimento. L’estate precedente aveva escogitato un piccolo trucco: in un paio di occasioni era partito il sabato, con la scusa di vendere anche la sera prima della festa, quando sulla piazza dei paesi si cantava, si ballava, e si ascoltavano le storie dei vecchi che, anche se erano sempre le stesse, erano comunque interessanti, perché ogni volta uscivano dei particolari inediti.  Si era recato a Barostro e a Bralello col suo fagotto e il suo fido quadrupede infecondo, per poi darsi invece al buon vino e ai canti in compagnia.

Finalmente, disceso dall’altro versante del Lesima, arrivò in vista di Zerba. Il paese era grande, se si teneva conto dei tre gruppi di case da cui era composto: Soprana, Lisamara e Stana; ma cionondimeno non era certo un paese ricco. Al ragazzo piacevano più i paesi della valle Staffora e della val Trebbia: erano più facilmente raggiungibili e c’era più movimento, il commercio “girava” meglio. I paesini della val Boreca, come quello che era la sua meta, non avevano molto passaggio, e gli abitanti erano perlopiù gente modesta. In ogni caso lui non disdegnava certo di fare affari con chicchessia, specialmente in giornate di festa come queste. Arrivò alla chiesa che la messa era già incominciata da un bel pezzo, si sentiva riecheggiare il latino del sacerdote. Legò il mulo e si infilò dentro il portone, più per vedere se c’era tanta gente e come erano ben vestiti che per un sincero pio sentimento. Una volta terminata la funzione religiosa iniziò, come abitudine, a salutare un po’ tutti, presentando la sua merce, chiedendo i bisogni della gente. Ormai era esperto, e sapeva che su queste cose comandavano quasi sempre le donne, quindi era a loro che prestava maggiormente la sua attenzione. Continuando a proporre i suoi prodotti, seguì il flusso della folla che si dirigeva verso la piazza, dove di lì a poco sarebbero iniziati canti, balli e pappatorie. Per la carità, non immaginatevi pranzi luculliani e viziose libagioni: in confronto ad oggi erano situazioni modeste, ma permeate da uno spirito di appartenenza, di gioiosità e di allegria indescrivibili, che facevano per un giorno dimenticare quanto dura potesse essere la vita.

Nostalgia della Val Boreca

Ecco un articolo apparso tempo fa su "La Trebbia" a firma di Dario Rebolini (mio zio):

La Val Boreca è bella e selvaggia. Quanta nostalgia di tornare in città!

Leggo spesso sul vostro ottimo settimanale le notizie che spesso parlano della Val Trebbia e mi ha colpito in particolar modo lo strazio che prova ad ogni fine estate quel giovane di Gorreto quando giunge l’ora di lasciare la valle. -Sul n. 31 del 18 settembre.- È uno sgomento che io provo da più di sessant’anni ad ogni fine agosto.
Lascio la Val Boreca che, anche se non se ne parla molto, non è meno bella della Val Trebbia.
I monti che la circondano – I’Alfeo, it Carmo, il Chiappo e il Lesima, le cui "cime ineguali ed elevate al cielo" potrebbero benissimo sostituire quelle del Manzoni sul lago, e Zerba con le sue "case sparse sul pendio come branchi di pecore pascenti" completerebbero l’opera, e, il Manzoni se si fosse trovato qui e non sul lago, avrebbe di sicuro creato la stessa magnifica opera de "I Promessi Sposi".
La Val Boreca è bella quanto la Val Trebbia ma io sono nato li, e non c’e nessun altro paese al mondo piu bello del tuo. Più di sessant’anni a contare gli ultimi giorni d’agosto che poi bisognava tornare in città e farli durare il più possibile, sessant’anni ad aspettare gli altri undici mesi per tornare lassù e passare un altro agosto a respirare a pieni polmoni e ritemprarti per gli altri prossimi undici mesi e via di seguito ad ogni anno.
Ma ora le cose sono cambiate, eravarno in due a provare questo strazio e ora sono solo, sono solo in questo 2008 che "lei" se ne è andata prima, ha voluto precedermi e salir lassù da sola, è andata su il diciannove aprile e non ha voluto aspettare il solito agosto.
Ma lei aveva la fede totale e senza dubbi, diceva sempre che lassù a Zerba (pur essendo nata e cresciuta a Genova) si sentiva felice perchè le pareva d’essere piu vicino al cielo ma not riusciremo a fare altrettanto? Riusciremo ad avere la sua fede? Ci aiuterà a conquistarla? Sarebbe atroce se non ci riuscissimo e dobbiamo pregarla che ci aiuti. Solo con la fede si potrebbe continuare a vivere quei tre giorni che ci mancano per raggiungerla a riunirsi a lei per sempre. Con la fede.
In agosto ma anche a luglio sono stato molto tempo con lei e non ho provato quel dolore che era nel mio cuore da quel diciannove aprile.
Ma l’estate è volata in un soffio e il ritorno è stato doloroso. Non solo lascio le bellezze della valle che ha descritto molto bene quel giovane poeta di Gorreto, ma devo lasciare li anche un pezzo del mio cuore e d’ora innanzi non dovrò tornare solo in agosto, ma molto più spesso.

(Articolo di Dario Rebolini – Foto tratta da www.zerba.org)

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