Per una donna si dice "avvocato" o "avvocata" ? Lo so che io mi disturbo il sonno con queste questioni di lana caprina, ma è un pour parler, poi ognuno fa come meglio crede…
Ho trovato spunti interessanti nella pubblicazione "Donne, politica e istituzioni. Percorsi, esperienze e idee" a cura di Maria Antonella Cocchiara, edita da Aracne Editrice. Contiene un saggio di Lucrezia Zingale dal titolo "Donne e linguaggio: la cultura della differenza". L’autrice, citando diverse fonti, compie un viaggio attraverso gli ultimi decenni di discussioni sul genere delle parole, rilevando il fatto che molte parole in uso nelle varie lingue, e in quella italiana nella fattispecie, hanno da sempre avuto solo la forma maschile (lo definisce "linguaggio sessista"). Il perchè e il percome e il comemai bisogna cambiare le cose lo lascio a voi. L’autrice riporta le origini di questa discussione, che nascono dal movimento femminista, quando per esempio consigliò l’abolizione dei termini "Signora / Signorina", ritenuti asimmetrici rispetto al termine "Signor", utilizzato per gli uomini, perchè identificano le donne non rispetto a se stesse, ma in relazione a qualcun altro. Il pensiero femminista ha aperto una riflessione sul fatto che l’uso della lingua riflette differenze legate al sesso / genere.
In Europa gli studi sulla rappresentazione linguistica di uomini e donne e
sul carattere discriminatorio riscontrabile in certi usi della lingua cominciano
a presentare una certa vitalità intorno alla fine degli anni Novanta. Essi partono
dalla considerazione che il principio del maschile come genere dominante,
variamente parametrizzato in ciascuna lingua, è causa alternativamente
di invisibilità e di eccessiva visibilità delle donne: da un lato ne oscura la presenza,
nascondendole sotto una morfologia maschile, e dall’altro, qualora
venga usato il femminile anziché il maschile, ne enfatizza la presenza, così da
farla apparire deviante rispetto alla norma.
Da qui nascono delle riflessioni sulla necessità di un nuovo uso della lingua. Ma come? Prima una premessa:
Il linguaggio è soggetto a modificazioni nel tempo, esso si contamina ed
arricchisce di nuove forme e di nuovi vocaboli.
Se mettiamo a confronto i testi di oggi con quelli di un secolo fa ci accorgiamo
che il linguaggio utilizzato è profondamente diverso: termini in disuso,
arcaici e termini di nuovo conio. Diversi i vocaboli, diverse le forme lessicali
e grammaticali.
e ancora:
Il linguaggio si modifica e risente della storia, della cultura, delle tradizioni
e delle abitudini. […] L’italiano, per esempio, come molte altre lingue distingue sul piano formale
tra genere femminile e genere maschile. La scelta fra l’uno e l’altro genere
grammaticale non è neutra ed ha risentito di una tradizione nella quale,
inevitabilmente, si sono stratificate le convenzioni sociali determinate, a loro
volta, dalle caratteristiche storiche e culturali delle varie epoche.
[…]
Eppure se nuove parole entrano con naturalezza nel linguaggio corrente,
tra la gioventù in particolare, per alcune di esse, per il linguaggio di genere ad
esempio, non si riesce a trovare uno spazio. L’introduzione di termini nuovi,
professionalizzanti per le donne, come dottora, avvocata, ministra, questora,
magistrata etc., viene osteggiata in ogni modo con diverse giustificazioni:
«suona male», «non è corretto», «è inutile, non serve», «vi sono altri vocaboli
sostitutivi», «esistono vocaboli neutri che si riferiscono a uomini e donne»,
«perché forzare la lingua», «che motivo c’è di cambiare se uomini e donne
sono uguali» etc.
In realtà le resistenze si registrano anche tra le stesse donne che spesso
preferiscono definirsi al maschile, forse perché si sentono più titolate e riconosciute
nel mondo degli uomini.
[…]
È necessario oggi, alla luce dei cambiamenti avvenuti nella società e al fine
di costruire la coscienza di tali innovazioni, rinnovare la lingua, introdurre
e utilizzare parole nuove di genere femminile, mutare il significante, cioè la
forma di una parola (sia essa un sostantivo o una forma verbale) usata fino ad
oggi solo al maschile, affinché essa denoti un referente femminile.
Non possono essere invocate ragioni di grammatica, sintassi, morfologia
per giustificare il conservatorismo.
Prima non esisteva la donna magistrata, ministra, avvocata (qualcuna).
Erano ruoli maschili e come tali erano definiti. Non era necessario ripensare a
queste professioni al femminile perché nessuna donna ricopriva la carica o il
ruolo.
Infine, citando SABATINI A. (1987), Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, in EAD., Il sessismo nella lingua italiana con la collaborazione di Marcella Mariani e la partecipazione alla ricerca di Edda Billi, Alda Santangelo, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma:
Nella sezione dedicata a “titoli, cariche, professioni, mestieri” la Sabatini
raccomanda di
1. Evitare di usare il maschile di nomi di mestieri, professioni, cariche, per segnalare
posizioni di prestigio quando il femminile esiste ed è regolarmente usato
solo per lavori gerarchicamente inferiori e tradizionalmente collegato al
“ruolo” femminile (amministratrice unica, segretaria generale) […]
2. Evitare di usare al maschile nomi di cariche che hanno la regolare forma femminile
(senatrice, notaia) […]
3. Evitare di usare al maschile, con articoli e concordanze
maschili, nomi epiceni (la stessa forma ha doppia valenza maschile e
femminile) o di formare un femminile con l’aggiunta del suffisso –essa, o anteponendo
o posponendo il modificatore donne (la parlamentare, la preside, la
comandante, la presidente) […]
4. Evitare di usare al maschile o di femminilizzare
con il suffisso –essa nomi di professione che hanno un regolare femminile
in –a (deputata, avvocata è un participio passato dal latino advocatus, advocata);
vedi la preghiera “Salve Regina”; Eia ergo, advocata nostra […]
(Satta, 1971) […]
5. Evitare di usare al maschile o di femminilizzare con il
suffisso –essa sostantivi riferiti a professioni e cariche il cui femminile può
esser formato senza recar disturbo alla lingua (la ministra, la sindaca) […]
6. Evitare di usare al maschile o con il modificatore “donna” i seguenti nomi
terminanti in –tore (pretora)
In realtà quello che è successo, e quello che io penso, è che la lingua si forma e si trasforma da sola. Nessuna imposizione "dall alto" hai mai fatto presa, perchè alla fine è la lingua comune, qualla usata, quella parlata, che vince. E se è uso comune dire "la preside", è altrettanto comune rivolgersi ad una legale come all’avvocato Taldeitali e non come avvocatessa nè tantomeno avvocata (quest’ultimo, lasciamolo riferito alla Madonna, che va benissimo…)

Leggete l’articolo qui sotto tratto da "La Repubblica". Ma come è possibile che quel maledetto razzista di un salumiere abbia osato aggredire un povero rapinatore? In fondo quello non stava cercando di fare nulla di male. E poi non si lamenti quando questi, vista l’arroganza e la prepotenza del negoziante, gli ha sparato un colpo di rivoltella. Inaudito, oggigiorno non è possibile neanche fare una rapina che subito ti sparano. Io gli darei il massimo della pena, secondo me è tentato omicidio volontario, io a quello gli darei l’ergastolo e butterei via la chiave. L’Italia è un paese civile che accoglie tutti a braccia aperte, e quell’uomo ha infangato il buon nome di una nazione. Suvvia, fatti rapinare e stai zitto!
di Rita Rebolini
Noi, gente di una certa età, andiamo volentieri a rivederci il passato: ai tempi del nostro compianto Don Mario. Lo incontravi a Pregola sulla via che porta al cimitero con breviario e il fido cagnolino. Si fermava volentieri a parlare con chi incontrava, aveva una parola buona per tutti e risolveva ogni problema dei suoi parrocchiani con l’aiuto che invocava da Dio. La sua fede traspirava da ogni suo gesto. A me che avevo espresso la mia preoccupazione ed anche un po’ di malumore per una faccenda di esproprio, disse: “Non disperi signora, le cose non vanno mai come vogliono gli uomini, bensì come vuole Dio”. Ve lo voglio proprio dire, ho constatato (dopo) che quella frase si era avverata.



