fabiotordi

(raccolta molto sparsa di pensieri)

fabiotordi

Google Street View a Voghera!

Circa un anno fa (come avevo scritto qui) mi ero imbattuto in una della auto di Google Street View, il servizio di Big G che permette di avere una visione fotografica delle vie della città. E’ facile, basta andare su Google Maps, inserire l’indirizzo desiderato e, una volta che avete davanti la mappa, cliccare sull’omino giallo che avete a sinistra sopra ai pulsanti "+" e "-" che servono per lo zoom. Cliccando sull’omino e tenendo premuto il tasto sinistro del mouse, potete posizionare l’omino sulla mappa e…voilà, ecco che sarete "catapultati" nella via desiderata. Potete quindi camminare, farvi un giro, andare avanti e indietro. Se non lo avete mai fatto, fatelo subito, troppo bello!

Finalmente anche Voghera è stata "mappata" da Google, alla faccia della privacy e cose simili. Per non incorrere in problemi che ha avuto in passato, Google oscura i volti, i numeri di targa, e altre cose. Mi sono fatto un giro per Voghera e guardate chi ho trovato:

La prima è una vista del mio negozio, la seconda ritrae… mio papà !! E’ stato googolato!!! Taaac, beccato!

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Ladro di editoriali

Lo ammetto pubblicamente: ho compiuto un furto! Ho rubato l’editoriale di ieri del direttore di ViVoPavia Notizie. Ovviamente non gli ho chiesto il permesso, altrimenti che furto sarebbe? Anzi, ho rincarato la dose rubando anche la foto. Ho fatto proprio un copia e incolla, non c’è nulla di mio, tutto rubato. Anche perchè le volte che ho chiesto a qualche giornalista di poter riportare il suo pezzo sul mio blog (ovviamente citando la fonte) ho ricevuto solo dei rifiuti. Allora sono passato all’esproprio giornalistico! Mi condanneranno come Sallusti? Beh, pazienza, al giorno d’oggi se non finisci a San Vittore non sei nessuno.

 

L’EDITORIALE. Commercio, sensi unici e l’involtino primavera

io copia

di EMANUELE BOTTIROLI

Il commercio non è una strada a senso unico, ma questione di proposte. Tanti cittadini di Pavia, Voghera e Vigevano sfogliando le cronache assistono a battaglie di schiere di commercianti contro la viabilità che cambia. Nel frattempo i centri storici perdono progressivamente fascino per l’incapacità dei professionisti del settore di mettersi insieme, innovare, organizzare iniziative e stupire la clientela anche con idee semplici e low cost. Muoiono le botteghe e i mercati storici. Il commercio pavese sta lasciando progressivamente troppo spazio non più ai franchising – quella è un’epoca già passata – ma a una schiera di attività di stranieri, pronti a maggiori sacrifici e ad aperture prolungate. Le città e i paesi si stanno snaturando e il rischio, paradossalmente, è che a breve potrebbe risultare più bello e qualitativamente appagante fare shopping nelle gallerie commerciali o negli outlet, dove le grandi griffe calamitano sempre di più l’attenzione. Fa orrore la gara al ribasso nei centri storici, dove al contrario dovrebbero essere i marchi, la professionalità e la qualità a prevalere. Stiamo perdendo la cultura del bello, sprofondando tra villaggi del kebab o dell’involtino primavera e coiffeur con gli occhi a mandorla. La liberalizzazione delle licenze e il non introdurre criteri professionalizzanti per gli operatori ha ucciso il gusto del vivere e dell’animare il commercio nei nostri centri urbani. Cambiare questo triste trend dovrebbe essere una sfida per tutti. Perché il commercio vero è anzitutto tre cose: identità, propensione al sacrificio e capacità di leggere i mutamenti. Ora o mai più.

 twitter-loghetto@bottiroli 
 
email-loghetto
direttore@vivopavianotizie.net

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Oggi ce l’ho con… ICA

Quando prendi una multa pensi sempre di aver subìto un torto, è normale. Pensi sempre di essere dalla parte della ragione, che la macchina l’avevi lasciata lì solo "per un minutino", ecc. Io ho preso una multa e anch’io quindi penso di essere della parte della ragione, ma non del tutto.

La multa in questione non l’ho presa dai vigili, ma è relativa a due manifesti che avevo sulla vetrina del negozio. Quando mi è arrivata a casa, tempo fa, da parte dell’I.C.A. (Imposte Comunali e Affini – società che si occupa di incassare i balzelli su affissioni e pubblicità) sono caduto dal pero: non ho nessun manifesto in negozio. Vado a chiedere spiegazioni e mi viene mostrata la foto, scattata ai primi di giugno. Certo che hanno tempi di incubazione lunghi per spedire le multe: più di 4 mesi! Io dico che in quel periodo avevo fatto regolarmente affiggere quei manifesti in giro per Voghera, e che me ne avevano timbrati un paio da mettere in vetrina. La signora cerca, ma non trova la fattura. Cerca ancora, e non la trova. Allora le dico di attendere, che gliel’avrei portata io, visto che ovviamente avevo la copia. A quel punto cerca meglio e la trova: disdetta, avevo pagato fino a fine maggio! Quindi la multa è formalmente corretta, lecita, indiscutibile: c’è da pagare e non si scappa, avevo lasciato i manifesti esposti per qualche giorno di troppo!

Però, siccome a pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina, è strano che mi abbiano fatto un controllo proprio proprio proprio nei giorni successivi al termine del pagamento. Suvvia: ho tolto i cartelli con qualche giorno di ritardo, quando abbiano rifatto le vetrine. Onestamente non mi sembra un peccato così grave, visto che sono cliente dell’ICA e in magazzino ho ancora circa 300 manifesti da affiggere. Manifesti che per ora non farò esporre, visto che i soldi che avrei dovuto spendere li uso per la multa. Quello che voglio dire è che non trovo giusto accanirsi con quelli che già pagano, spiandoli per vedere se sgarrano. Altrimenti ti vieni da pensare all’italiana: "non pago più, poi se mi beccano pago la multa, oppure la faccio franca". Altrimenti si finisce, come nel mio caso, a pagare l’affissione E ANCHE la multa. Eh no signori, lo so che gli enti pubblici e presunti tali hanno bisogno di soldi, ma perchè bisogna sempre far cornuta e mazziata la gente? Va beh, dopo aver parlato con qualche collega mi sono sentito quasi fortunato, a loro sono capitate cose più assurde. Chi ha preso la multa perchè ha cambiato insegna al negozio (che è ESENTE per legge) perchè è stata considerata pubblicità, oppure multa per una locandina regolamente timbrata e pagata, ma esposta in una vetrinetta luminosa!! Io non dico che non ci debbano essere regole, ma a volte sono interpretabili troppo fiscalmente, oppure arbitrariamente, e questo non va bene, perchè non è più lotta ai "furbi" ma solo vessazione dei contribuenti.


Mimmo Rotella – "La preda bionda" – 2002

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Cielo manca cielo manca

Le abitudini cambiano: così come l’anno scorso mi ero preso bene con Real Time, da un po’ di tempo a questa parte guardo principalmente Cielo, la tv in chiaro di SKY.

Ho iniziato per caso l’anno scorso, facendo zapping mi sono fermato sulla trasmissione Masterchef e mi ha talmente coinvolto che ho visto (quasi) tutte le puntate. Mitici i tre giudici Barbieri, Cracco e Bastianich! Grazie a questa trasmissione ho iniziato a guardare sempre più spesso questo canale. Ho seguito Il Principiante (con Emanuele Filiberto), dove il principe si cimentava in umili lavori.

Adesso vedo un po’ di tutto: in preserata Masterchef USA (c’è sempre Bastianich e il cuoco scozzese multistellato Michelin, Gordon Ramsey), al martedì sera di fisso il programma di Briatore "The Apprentice", alla domenica sera la replica di X-factor (che ridere il casting!). Inoltre apprezzo molto Gli Sgommati (la migliore satira politica) e "Affari di famiglia", dove gli americano vendono o impegnano gli oggetti più disparati al banco pegni. E nientepopodimenoche fanno anche le repliche di X-files. Dateci un’occhiata: canale 26 !

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Via dei Tordi

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Tex Willer Disney

Su "Topolino" 2964 del 18 settembre 2012 Corrado Mastantuono ha voluto rendere omaggio a Tex Willer, personaggio creato nel 1948 da Gian Luigi Bonelli. In una classica avventura del vecchio west, dove una fattoria è minacciata dai cattivoni, arrivano Bum Willer (alias Tex Willer, interpretato da Bum Bum Ghigno) coi suoi fidi pards Architaigher (alias Tiger Jack, interpretato da Archimede Pitagorico) e Pap Carson (Kit Carson, ovvero Paolino Paperino). Un omaggio anche a Sergio Bonelli ad un anno dalla scomparsa, che ha portato un grande vuoto nel fumetto italiano, ma che ci ha lasciato decine di amici di carta: da Tex a Zagor, da Dylan a Martin, da Nathan a Julia, e molti, moltissimi altri.

 

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Siro del Brallo – 6

In questa intervista il Cavalier Siro ci racconta alcuni aneddoti della sua lunga carriera di venditore. Lo sapevate che ha venduto anche le "lastre in ardesia che ricoprivano i tetti" (più brevente dette "ciappe") ?

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Il personale di vendita

Format Distributivi del settore moda abbigliamento in Italia: situazione e prospettive del piccolo punto vendita

Trentasettesima puntata

Per molti consumatori il negozio si identifica con il personale di vendita con il quale entrano in contatto diretto. Il ruolo del personale sotto il profilo del marketing consiste nell’insieme di attività svolte dai titolari o dagli addetti per aiutare i clienti ad effettuare gli acquisti. È un ruolo particolarmente significativo per i negozi, i cui clienti sono abituati al servizio di assistenza degli addetti alla vendita.

Questi devono far corrispondere i bisogni dei consumatori con l’offerta del negozio, attraverso un’attività molto complessa. Se il processo è ben eseguito, il consumatore è trasformato in acquirente soddisfatto e quindi con buona probabilità in un cliente fedele. Il buon addetto non si deve tuttavia limitare alla vendita distributiva, ossia porgere, illustrare o consegnare ciò che il cliente richiede, ma cercare di vendere anche e soprattutto ciò che non è richiesto, passando così alla vendita creativa, soddisfacendo anche i desideri latenti, o quelli non ancora espressi (M. Silvano, “Successo nella vendita”, Hoepli, 1994)

Per riuscire in questo difficile compito il personale di vendita deve avere un complesso insieme di caratteristiche che riguardano la personalità, l’aspetto e l’intelligenza. Queste qualità possono essere suddivise in elementi esterni ed interni.
I primi sono quegli aspetti che sono percepiti direttamente dal cliente, i secondi fanno parte del "motore" per la vendita che addetto deve possedere.

I principali elementi esterni sono:

  • Aspetto. Deve essere consono all’ambiente di vendita. Un negozio elegante dovrà avere commessi eleganti, che tuttavia stonerebbero in un negozio di articoli sportivi.
  • Simpatia, educazione e gentilezza. Il vecchio detto che "il cliente ha sempre ragione" è ancora validissimo. Può risultare di difficile attuazione e queste caratteristiche sono basilari per il rapporto coi clienti.
  • Sicurezza di sé. Per convincere un potenziale acquirente occorre innanzi tutto che il venditore sia ed appaia determinato.
  • Naturalezza e semplicità. L’artificiosità può essere dannosa. L’azione di vendita deve risultare spontanea.
  • Forma. Il commesso si deve rivolgere agli avventori con una forma adeguata, senza sopraffazione.
  • Stile. Così come l’aspetto, è opportuno che lo stile della vendita sia coerente con il contesto.
  • Fiducia. È necessario conquistare la massima fiducia del cliente.

I fondamentali elementi interni sono:

  • Psicologia. È una dote basilare per capire, assecondare e sviluppare i desideri espressi o latenti del cliente.
  • Pensiero. Per non limitarsi a rispondere banalmente soltanto alle richieste manifeste è richiesto una continua sollecitazione del pensiero.
  • Memoria. Il venditore deve ricordarsi i clienti abituali, i loro gusti e le loro idee; deve ricordarsi gli articoli in negozio e in magazzino; deve ricordarsi le caratteristiche dei prodotti.
  • Immaginazione. Ci si deve immaginare il capo indossato dal cliente, la vestibilità.
  • Fantasia creativa. Si deve suscitare prima l’attenzione e poi l’intenzione all’acquisto attraverso stimoli creati dal linguaggio e dai gesti.
  • Volontà, perseveranza. Non bisogna arrendersi davanti alle prime difficoltà, al rifiuto del cliente, ma insistere senza ostinazione.
  • Prontezza. Il buon venditore deve essere risoluto nelle sue azioni.
  • Organizzazione. Prima dell’atto di vendita occorre una minuziosa conoscenza e preparazione.
  • Capacità di osservare / ascoltare. Mettersi nei panni di chi si ha di fronte aiuta molto a comprendere la situazione e affrontarla in modo adeguato e inoltre mette a proprio agio il cliente, che di frequente cerca nel piccolo negozio un rapporto umano più intenso.

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Pazza velocità

Mannaggia al multanova. Qualche tempo fa, diciamo una trentina d’anni, stavo transitando a Pavia col mio bolide, una Fiat Nuova 500, quando sono stato pizzicato dalla stradale mentre sfrecciavo a 82 km/h dove il limite era di 50km/h. Accidenti, questo bello scherzetto mi è costato centocinquantaduemila lire!

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I Ragazzi Del Lesima – 5

Il giovane venditore rimase qualche minuto pensieroso.
“Una maestra… addirittura… una maestra… Quando andavo a scuola a Corbesassi avevo un maestro che arrivava da Varzi, o da un paese vicino. Mi sembrava altissimo, intelligentissimo, vecchissimo e soprattutto molto austero e severo. Io, per fortuna, me la cavavo molto bene in aritmetica e quindi riuscivo a scusare qualche carenza nelle altre materie. Non avevo mai conosciuto prima d’ora una maestra, soprattutto una della mia età. Caspita: una maestra, una vera maestra!”.
Fu destato da una mano che si era posata sulla sua spalla: era lei!
“Allora, ci facciamo un ultimo giro? Però devi promettermi che stai più attento e cercherai di non pestarmi troppo i piedi”.
E ballarono, ballarono, ballarono fino al tramonto. Il ragazzo si rese conto che doveva imboccare la via del ritorno, aveva parecchia strada da fare per tornare a casa.
“Il mese prossimo c’è la festa a Vezimo, vieni?” disse la maestrina di Zerba.
“Credo proprio di sì, allora ci vediamo là, così puoi darmi altre lezioni di ballo.”
“Volentieri, mi sei molto simpatico, e pensare che mia mamma mi aveva parlato male di te.”
“Ah si? Posso conoscere il motivo di questa antipatia?”
“Beh, diceva di starti alla larga perché sei un commerciante, e quindi un buono a nulla, uno che non è capace neanche di andar nei campi o curare gli animali, e poi che sei uno sbruffone, un fanfarone. Sai, i miei genitori hanno fatto dei sacrifici per permettermi di studiare e vorrebbero per me qualcuno che abbia un lavoro solido e un avvenire garantito, non un mercante.”
“Aspetta un attimo, non ti sembra di correre un po’ troppo? Abbiamo solo ballato insieme.”
“Hai ragione, scusa” disse lei diventando tutta rossa, e aggiunse: “Allora ci vediamo, ciao”. E corse via, verso casa.

Durante il viaggio di ritorno il ragazzo non fece che pensare a quegli occhi, a quelle parole, i balli di quel pomeriggio, a quella figura minuta, i suoi capelli, le sue mani. Pareva che i propri piedi camminassero da soli lungo il sentiero del Lesima, non sentiva né il freddo né la fatica. Non era preoccupato, ma neanche soddisfatto, di come erano andate le vendite. Non gli importava più, pensava solo a lei, la maestra, la ragazza di Zerba, e quando fu arrivato vicino a casa i suoi pensieri si erano riassunti in una sola, forse avventata, ma solida, convinzione: “Io, un giorno, la sposerò!

Qui finisce, per noi, questa storia, che è un po’ vera e un po’ narrata sulle ali della fantasia. Non so veramente come siano andate le cose, non so come realmente si siano incontrati, come si siano conosciuti, ma mi piace immaginare che sia andata proprio così, come vi ho raccontato. Quello che so per certo è che la favola del commerciante e della maestra è una bella storia, che è durata tutta la vita. Ancora oggi, che hanno passato gli ottant’anni, quando guardano il monte Lesima, ai cui fianchi sono cresciuti e vissuti, pregano verso la croce che svetta sulla sua cima, e ringraziano il Signore per tutto ciò che gli ha regalato. Come faccio a sapere tutte queste cose? Perché il ragazzo di Ponti e la ragazza di Zerba li conosco molto bene: li vedo tutti i giorni da quando sono nato!

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I Ragazzi Del Lesima – 4

A metà pomeriggio le vendite erano andate abbastanza bene: qualche metro di stoffa, cinque o sei pezze, era riuscito a vendere anche le uova ricevute in pagamento alla mattina. Aveva mangiato tardi: un po’ di polenta, un pezzo di pane e il formaggio che si era portato da casa, seduto sulle grosse radici di una pianta che sbucavano dal terreno. Anche in seguito si sedette lì, per riposarsi un po’ e guardare la gente ballare. Lui non era un granché come ballerino, si reputava goffo e impacciato, preferiva darsi al canto, soprattutto se agevolato da un buon vino rosso: «Mariolin, bella Mariolin, Mariolin, bella Mariolin, ma dove hai messo quel bambino che avevi?». Che bella che gli sembrava la vita: una canzone, un bicchiere di vino, una bella festa e un numero sufficiente di vendite. Quando sarebbe tornato a Ponti suo papà sarebbe stato sicuramente contento. A proposito del ritorno: un bel sole riscaldava la giornata e lui sperava che riuscisse a sciogliere la neve che ancora resisteva su quel tratto di sentiero per tornare a casa.

A destarlo dai suoi pensieri ci pensò un giovanotto di Zerba, che conosceva bene:
“Non balli? Che fai lì da solo? Non dirmi che non sei capace”, esordì.
“No, mi sto solo riposando, adesso ballo” rispose lui, che non voleva ammettere la sua inesperienza.
Si drizzò in piedi, e, con fare sapiente, scrutò il ballo per vedere se tra gli astanti c’era qualche dama libera da poter accompagnare. Pose gli occhi su una fanciulla: minuta, cappelli castani lunghi e un po’ mossi, un viso dolce, vestita tutta a puntino per la festa. Sembrava fosse lì apposta per farsi invitare.
“Ciao, ti va di ballare?” le disse.
“Volentieri”.
E ballarono. Il ragazzo non era, per l’appunto, molto abile, e finì per andare spesso fuori tempo e addirittura per pestare i piedi alla sua damigella, ma non se ne fece un cruccio, era rapito dagli occhi di quella ragazza e avrebbe voluto stare con lei tutto il pomeriggio ed anche la sera. Lei, a sua volta, pareva quasi non accorgersi di qualche movimento sgraziato del suo cavaliere.

Dopo qualche danza si divisero, c’era una vecchina interessata alle sue stoffe: gli affari chiamavano e lui, prontamente, rispondeva. La signora aveva preteso un forte sconto per via dell’ora tarda, sostenendo che altrimenti lui sarebbe dovuto tornare a casa con la stoffa invenduta, invece lei gli avrebbe fatto quasi un piacere a comprargliela, ad un prezzo ridotto, s’intende. Mentre dava retta alla cliente, il giovane mercante non riusciva a smettere di guardare sottecchi la giovane donna con cui aveva ballato. Si accorse che anche lei lo guardava, seppur pudicamente per non dare troppo nell’occhio. Passò di lì ancora quel suo amico che lo apostrofò:
“Guarda che ti ho visto come stai osservando quella li, fai attenzione, non farti idee strane”, ma lui prontamente rispose a tono:
“Che stai dicendo, ti riferisci a me? Io? L’ho solo fatta ballare perché era l’unica da sola in quel momento.”
 “Amico, a me non la dai a bere, la stai mangiando con gli occhi. E anche lei non smette di ronzarti attorno. Dammi ascolto, lascia stare, è la sorella di un mio amico, la conosco bene, ed è una buona a nulla.”
“Come, una buona a nulla?”
“Ma sì… figurati, dicono che non è neanche capace di andare al pascolo con le bestie. I suoi l’hanno fatta studiare, è diventata da poco maestra, si è diplomata a Bobbio.”
“Caspita, una maestra? Beh, io a scuola ero un campione con le tabelline…”
“Te lo ripeto, lascia stare. Non pensare che sia una di quelle maestrine di città, questa qui è una che ha studiato perché, secondo me, non ha voglia di lavorare. Pensaci: cosa se ne farebbe un uomo di una moglie che non sa neanche curare due galline e pensa solo ai libri? A parer mio non è capace neanche di sistemare casa”.
E, con quest’ultimo giudizio, l’amico se ne andò a fare un ulteriore ballo.

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I Ragazzi Del Lesima – 3

Quando fu molto in alto, sopra Prodongo, c’era un tratto del sentiero che era tutto all’ombra ed era ancora pieno di neve. Ad un certo punto il mulo, testardo come vuole la tradizione popolare, si arrestò nel suo incedere e non volle in alcun modo proseguire. Il ragazzo ci si mise d’impegno, prima con le parole, poi con le minacce urlate, poi ancora con le carezze e infine spingendolo malamente. Lo spronava e lo spintonava, mentre la neve gli entrava nelle scarpe. Anche se era giorno di festa non aveva potuto mettersi le scarpe nuove che suo padre gli aveva comprato recentemente perché, sapendo che tipo di strada avrebbe dovuto percorrere, gli avevano proibito di indossarle, calzando viceversa quelle vecchie. Queste erano ormai rotte e sfilacciate, oltre al fatto che gli andavano strette, procurandogli notevoli spelature quando le indossava per lunghi viaggi. Suo padre gliele aveva comprate al mercato di Varzi, usando come sempre il metodo del “bacchetto”: una piccola asta di legno che aveva pressappoco la lunghezza del piede. Potete ben immaginare che con quella pratica approssimativa le calzature acquistate erano quasi sempre di misura sbagliata. Nel caso fossero state troppo grandi bastava legarle un po’ più strette, ma quando erano troppo piccole erano causa sicura di sofferenze.

Dai e dai, spingi e spingi, alla fine il mulo si decise a ripartire.
“Che faticaccia, ed io ho solo un mulo: chissà come aveva fatto Annibale a passare da queste parti con un esercito di elefanti” pensò il ragazzo, riferendosi al grande condottiero cartaginese. Egli transitò proprio da quelle parti, prima di combattere la battaglia della Trebbia, e si dice che il nome del monte Lesima derivi proprio dal latino “Lesa manus”, per indicare una ferita alla mano subita dallo stratega africano. Il giovane di Ponti non aveva mai visto un elefante, neppure disegnato, ma gli era stato detto che si trattava di animali mastodontici.
“Sarebbe bello averne uno” pensò scherzosamente “oppure possedere un’automobile, come i signori di città, e girare in lungo e in largo, adesso che ci sono le strade!”

Il sole era già alto e il nostro commerciante voleva essere a Zerba molto prima dell’ora di pranzo, in modo da avere a disposizione l’intera giornata per piazzare la sua mercanzia.
“Speriamo di vendere, in modo da non sentirmi anche stavolta i rimproveri quando torno a casa, e che perlomeno ci sia da divertirsi”.
I suoi genitori, come spesso accadeva in quegli anni, erano molto severi, e suo padre non transigeva dal lavorare sodo e pensare il meno possibile ai divertimenti, ma lui aveva quasi vent’anni: pur dando il giusto peso al suo lavoro – che in ogni modo gli piaceva più di ogni altra cosa – era pur sempre un ragazzo e come tale aveva piacere nella compagnia e nel divertimento. L’estate precedente aveva escogitato un piccolo trucco: in un paio di occasioni era partito il sabato, con la scusa di vendere anche la sera prima della festa, quando sulla piazza dei paesi si cantava, si ballava, e si ascoltavano le storie dei vecchi che, anche se erano sempre le stesse, erano comunque interessanti, perché ogni volta uscivano dei particolari inediti.  Si era recato a Barostro e a Bralello col suo fagotto e il suo fido quadrupede infecondo, per poi darsi invece al buon vino e ai canti in compagnia.

Finalmente, disceso dall’altro versante del Lesima, arrivò in vista di Zerba. Il paese era grande, se si teneva conto dei tre gruppi di case da cui era composto: Soprana, Lisamara e Stana; ma cionondimeno non era certo un paese ricco. Al ragazzo piacevano più i paesi della valle Staffora e della val Trebbia: erano più facilmente raggiungibili e c’era più movimento, il commercio “girava” meglio. I paesini della val Boreca, come quello che era la sua meta, non avevano molto passaggio, e gli abitanti erano perlopiù gente modesta. In ogni caso lui non disdegnava certo di fare affari con chicchessia, specialmente in giornate di festa come queste. Arrivò alla chiesa che la messa era già incominciata da un bel pezzo, si sentiva riecheggiare il latino del sacerdote. Legò il mulo e si infilò dentro il portone, più per vedere se c’era tanta gente e come erano ben vestiti che per un sincero pio sentimento. Una volta terminata la funzione religiosa iniziò, come abitudine, a salutare un po’ tutti, presentando la sua merce, chiedendo i bisogni della gente. Ormai era esperto, e sapeva che su queste cose comandavano quasi sempre le donne, quindi era a loro che prestava maggiormente la sua attenzione. Continuando a proporre i suoi prodotti, seguì il flusso della folla che si dirigeva verso la piazza, dove di lì a poco sarebbero iniziati canti, balli e pappatorie. Per la carità, non immaginatevi pranzi luculliani e viziose libagioni: in confronto ad oggi erano situazioni modeste, ma permeate da uno spirito di appartenenza, di gioiosità e di allegria indescrivibili, che facevano per un giorno dimenticare quanto dura potesse essere la vita.

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I Ragazzi Del Lesima – 2

La sua prima tappa, Corbesassi, non era affatto distante. Era un paese proprio sopra al suo, dove svettava il campanile più alto di tutta la vallata. Era come se Ponti fosse quasi una succursale di Corbesassi. Il ragazzo, molto spesso, quando gli si chiedeva da dove venisse rispondeva: “Sono di Corbesassi” e solo dopo specificava “di Ponti, per la precisione”. Le scuole erano a Corbesassi, così come le poche botteghe, il sarto e l’osteria. A dire la verità anche al suo paesello c’era l’osteria, proprio a casa del ragazzo. Niente di paragonabile ai locali di oggi: a quei tempi l’osteria era una casa privata, dove chi voleva entrava a passare qualche mezz’ora bevendo vino, raccontando storie e magari giocare alle carte. Il padre del ragazzo aveva sempre avuto l’animo del commerciante: pur vivendo in un paese molto povero si era continuamente inventato dei modi per guadagnare un poco di denaro, in un’economia dove, al contrario, la normalità era vivere solo di quello che dava la terra e il bestiame. “Ponti è l’ultimo paese che ha creato il Signore, finisce anche la strada”, dicevano quelli che schernivano il ragazzo e i suoi compaesani. E pensare che fino a pochi anni prima non c’era neppure, quella strada. L’avevano costruita proprio di recente, seguendo un tracciato che riducesse al minimo le perdite di terra coltivabile, infischiandosene quindi di ottenere un percorso agevole. Tutti gli uomini del paese, coordinati proprio da suo padre, che si vantava di esser stato “capofrazione”, avevano dato una mano per scavare, portar via la terra, sistemare. In poco tempo anche Ponti era finalmente collegata al resto dell’Italia: si poteva raggiungere Corbesassi e da lì proseguire, sempre con una strada di recentissima costruzione, il Passo del Brallo, la frazione del comune di Pregola che maggiormente stava beneficiando del progresso dato dalle nuove vie di comunicazione.

Il ragazzo camminava in salita e pensava a quanto fosse beffardo il destino che gli aveva dato un animale da soma, ma gli aveva negato la possibilità di cavalcarlo e farsi portare, visto che era già carico di merce.
“Che me ne faccio di un mulo se poi mi tocca andare a piedi?” diceva tra sé e sé, “hanno ragione quelli che mi prendono in giro? Ma un giorno dimostrerò che anche uno di Ponti, l’ultimo dei paesi, riuscirà a combinare qualcosa di grande! Non so ancora cosa, ma prima o poi…”
E così, immerso nei suoi pensieri, arrivò a destinazione.

Puntò deciso verso una casa al centro del paese. Quel giorno non avrebbe fatto il solito giro, aveva un po’ di premura e sarebbe andato subito al sodo. C’era una famiglia che aveva richiesto una stoffa per far realizzare un abito al figlio, che si sarebbe sposato a breve.
“Buondì, ecco il tessuto che mi avete chiesto” disse quando una donna piccolina, ma nerboruta, gli venne ad aprire l’uscio.
Era la madre del futuro sposo, che fece accomodare il giovane nella spartana stanza che fungeva da tinello ed esaminò con cura la tela, mentre dall’altra stanza sopraggiunsero due uomini: il marito della donna e il figlio, che avrebbe indossato l’abito. La signora non era molto convinta, o forse voleva solo trattare sul prezzo, e si disse intenzionata a lasciar perdere, ma l’abilità commerciale del ragazzo, coi suoi modi sempre gentili, ma doverosamente un po’ insistenti, la convinsero dell’acquisto. Lasciato all’angelo del focolare di casa il compito della trattativa, toccava ora a chi portava i pantaloni perfezionare l’acquisto. Sto parlando del marito, ovviamente, che era il padrone di casa. Dell’opinione del figlio, a quell’epoca, interessava a pochi e, in ogni caso, sarebbe stata ininfluente. L’uomo propose, com’era prassi abituale, di acquistare a credito, ma il venditore di Ponti gli fece notare che il suo conto stava diventando un po’ troppo consistente e avrebbe preferito un pagamento immediato, considerando anche che, la loro, era stata un’espressa richiesta. Il padre dello sposo tergiversò, iniziò a parlare di tutte le spese a cui stava andando incontro a causa di quel matrimonio, si lamentò del fatto che con l’avvento della Repubblica fosse aumentato tutto, e alla fine propose di pagare una parte del debito pregresso, mettendo in conto quello che aveva appena comperato. Il ragazzo accettò pensando: “piuttosto che niente, è meglio piuttosto”, come gli avevano insegnato gli anziani del suo paese. Velocemente passò in una casa vicina, dove abitava la signora Maria, detta da tutti Mariuccia, per chiedere se, come promesso, gli poteva saldare un vecchio conto, aperto dal marito morto qualche mese prima. La povera vedova disse che non aveva molto, che stava passando un brutto periodo e che attualmente gli poteva dare solo un cavagno di uova. Con la promessa che al più presto le avrebbe restituito il paniere, il giovane sistemò le uova sul mulo, nella speranza di non romperle durante il tragitto che ancora lo attendeva.
Senza perdersi in altre faccende, voltò il quadrupede in direzione di Zerba, un paese che stava al di là del monte Lesima, dove quel giorno ci sarebbe stata una piccola festa, e quindi l’occasione buona per cercar di vendere qualcosa. La giornata non era iniziata male, aveva già recuperato in parte dei vecchi crediti, circostanza che non sempre facilmente si presentava. Col sorriso sulle labbra si incamminò.

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I Ragazzi Del Lesima – 1

Vi voglio raccontare una storia ambientata sui versanti del Lesima, il monte più alto dell’Appennino Pavese, punto di incontro tra i territori di ben quattro regioni: la Lombardia, l’Emilia Romagna, il Piemonte e poco lontano la Liguria. È il racconto di quello che successe in una domenica di primavera di tanto tempo fa, e inizia a Ponti, piccolo paese della valle dell’Avagnone.

Quel giorno faceva proprio freddo. Eravamo quasi ad aprile del millenovecentoquarantanove, ma era nevicato da poco: quell’anno la bella stagione non voleva proprio farsi vedere. Il cielo era terso, ma l’aria pungente e occorreva ancora vestirsi con abiti pesanti.
Il ragazzo si apprestava a caricare il mulo di tutte le sue cose: i due rotoli di stoffa a quadri, qualche metro di lino, gli scampoli di fustagno arrivati addirittura da Milano e, infine, delle pezze di lana. Non erano certo dei suoi effetti personali, ma la merce che avrebbe cercato di vendere quella giornata. Eh sì, il ragazzo era un venditore. Al giorno d’oggi si aggiungerebbe “porta a porta”, ma a quei tempi era la normalità: nei paesi dell’Appennino non esistevano botteghe, se non qualche raro rivenditore di generi alimentari.

Mentre il ragazzo finiva di sistemare la merce, dal retro della casa, dove c’era una piccola stalla, uscì il padre e gli fece mille raccomandazioni:
“Stai attento, se ti danno dei soldi nascondili nella maglia, vai dalla Mariuccia che ci deve pagare da tanto tempo, non perderti in chiacchiere inutili!” e così via.
Che noioso!”, pensò il ragazzo, ma non rispose nulla al genitore. Non aveva voglia di guastarsi il morale e poi non poteva certo replicare a tono al proprio padre, meglio stare zitto e far finta di nulla, oggi era una giornata speciale e voleva rimanere a cuore lieto.
“Papà, ho finito! Tra poco parto. Non vi preoccupate, il tempo è ottimo e sicuramente ci saranno delle vendite. A stasera!”.
Quel «vi», badate bene, non è dovuto al plurale, ma al fatto che a quei tempi era abituale dare del «voi» al proprio genitore. Al «tu» ci si è arrivati nella generazione successiva.

Il ragazzo rientrò in casa per prendere il cappello e trovò la madre in cucina che, sentendolo rientrare, gli portò un fagottino.
“Ti ho messo un po’ di pane e del formaggio” disse la donna.
“Mamma, non datevi pensiero, avrei mangiato per strada” rispose lui, ma la madre non volle sentir ragioni.
“Sei come tuo padre, ti perdi negli affari e non sai neanche più se è ora di pranzo. Fidati di me, a pancia piena si ragiona meglio. Hai messo il maglione pesante? Fa ancora freddo.”
“Si mamma, grazie. Arrivederci”.
Prese il fagotto e uscì prima ancora che lei potesse nuovamente replicare.

(segue domani…)


Una

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Che schifo !

Purtroppo non mi è venuta altra espressione, pensando alla politica italiana. Siamo governati da una banda di ladri, disonesti, truffatori. Ogni giorno uno scandalo, che ormai non è più neanche tale, perchè il cittadino-suddito è assuefatto, non ci fa più caso. Ogni giorno si scoprono politici che rubano, che violano le leggi, che intascano, che trafficano, che arraffano. Si pagano le vacanze, le case, le auto. E poi ci vengono a insegnare la morale. Ci vengono a dire in televisione che chi magari non è in regola con i versamenti INPS è un "parassita" della società. Eh già perchè loro invece cosa sono? Il grande scrittore George Orwell, oltre al mitico libro 1984 in cui preconizzava l’avvento del Grande Fratello, scrisse uno dei miei libri preferiti in assoluto: "La fattoria degli animali". Se non l’avete mai fatto leggetelo. E’ malinconico, purtroppo, come è malinconica l’attuale classe politica. Che viene metaforizzata da Orwell come una banda di maiali.

Questi signori ci prendono per i fondelli. Il presidente della regione Lazio, Polverini, ci viene a dire che lei non sapeva niente, che lei non è coinvolta, che non ha mai rubato un euro. E chi se ne frega: il pesce puzza dalla testa e il presidente è responsabile moralmente di quello che accade. Ah già, ho detto "moralmente", dimenticando che questi personaggi non conoscano il significato della parola "morale".

Spero solo per voi, poveri rutelli, meschini polverini (li scrivo in caratteri minuscoli perchè sto a indicare un’intera generazione di polici, non solo a quelli citati), che la gente si limiti a non votare, o ad annullare le schede, o al limite a fare un voto di protesta. Perchè se li fate ulteriormente incazzare, rubando soldi mentre gli imprenditori chiudono e gli operai sono senza lavoro, quelli vengono lì e vi fanno un mazzo così. E nessuno potrebbe biasimarli. Speriamo di no, sarebbe un ulteriore imbarbarimento della società, ma da parte dei signori seduti sugli scranni del potere non arriva nessun segnale di umiltà, anzi!

 

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